Cronaca

La Russa Jr, il mostro non era un mostro. Non vi fate schifo?

Per la Procura non ci sono prove per accusare di violenza sessuale il figlio del presidente del Senato. Intanto c’è stata la gogna delle benpensanti

Adesso dicono che la richiesta di prosciogliere il figlio di La Russa dall’accusa di violenze sessuali sia una richiesta politica, che salvarne uno per salvarne cento di figli di potenti, che oggi per Leonardo Apache, domani per Ciro Grillo; dicono, e lo dicono i travaglieschi, i fanatici della magistratura immacolata, che, ah, è il solito gioco dei poteri loschi che si coprono a vicenda, il “cane non mangia cane” che in un attimo dirotta le belle coscienze ventoteniane dai giudici ultima spes a servi dei potere.

Di certo c’è che quella della pubblica accusa è una richiesta politica, e una volta tanto benvenuta perché politica, non politicante, non militante: può benissimo darsi che dietro ci sia un discorso opportunistico, di spartizione del potere, i soliti sospetti che resteranno tali, ma prima dei sospetti una evidenza: la decisione, comunque da sancire in giudizio, comincia a riequilibrare un pensiero giudiziario aberrante figlio di un ideologia aberrante secondo cui la femmina – ma come? Ci sono ancora le femmine? non era tutta una faccenda autopercettiva? – ha sempre ragione, se apre bocca la sua è verità rivelata e non c’è bisogno di indagare, di dubitare. Su un simile, farneticante presupposto le sentenze dei tribunali si son fatte scandalosamente, paranoicamente parziali, pericolosamente orientate e ne è nato, oltre al resto, un business del vittimismo lucroso che, tanto per citarne un solo aspetto, vede ogni anno in Italia qualcosa come dodicimila uomini, maschi bianchi, padri distrutti, privati del loro ruolo, della prole, condannati a versare a vita alimenti e prebende per accuse lungi dall’essere provate, marchiati per sempre come mostri, orchi, predatori.

L’altro ieri si è saputo di una ragazzina, quindicenne, che aveva trovato modo di spremere il padre dietro ricatto di inesistenti abusi sessuali, una accusa turpe, da suicidio, ma il padre pagava e moriva. Questi pm di Milano non nascondono le loro perplessità, fors’anche ideologiche: nella richiesta di archiviazione tradiscono l’immancabile moralismo giudiziario, sottolineano “la superficialità e volgarità del modo di trattare una ragazza” e questo se può suonare irritante a chi pensa che i giudici debbano limitarsi ad applicare il codice, ha in realtà un valore positivo, dimostra che malgrado le perplessità civili, moralistiche dei giudici non basta neppure a loro, neppure più a loro per tenere su un’accusa. Mesi di riscontri, di perizie anche voyeuristiche finiscono per escludere la matrice criminale, lo stupro in quanto tale tenendo conto del comportamento della presunta vittima, delle sue ambiguità, della disinvoltura con cui si decide a denunciare dopo un mese e mezzo, della propensione ad abusare, a mettersi in situazioni scabrose; più di tutto, sembra uscire dalla risoluzione dei giudici una conclusione non si sa se desolata ma comunque realistica, quella di non potere materialmente capire, decidere se e fino a che punto sia stata effettivamente consumata una prepotenza fisica.

Dicono questi giudici in parole se volete brutali non che una se l’è cercata, per carità, ma che il buon senso, se non altro la coerenza viene richiesta anche a una signorina affamata di vita come ad ogni essere umano; che la logica del fare ciò che si vuole è sacrosanta ma non in antitesi con una prudenza di fondo, insomma fare ciò che si vuole sì ma, come diceva il filosofo Mick Jagger, “non puoi avere sempre ciò che vuoi” fidando poi di cavarne il meglio da una pronuncia in giudizio. Questi giudici non ragionano per resipiscenza: nel profondo restano, in genere, ideologizzati ma si ritrovano costretti ad operare a loro volta scelte di buon senso, scelte concrete: sommersi come sono di denunce, si ritrovano nella situazione di doverle sfoltire pena il collasso definitivo del sistema giudiziario; c’è una propensione alla lite pretestuosa, temeraria che è finita oltre il livello tollerabile e i magistrati cominciano ad arginarla dagli ambiti più inflazionati, la battaglia dei sessi, le molestie asserite, gli scazzi da social. Realpolitik, come sempre quando una attitudine diventa tendenza e la tendenza diventa pretesa e la pretesa diventa diritto e il diritto diventa frana.

La faccenda non piace ai propagandisti di sinistra, ma tant’è. Oggi disperati, incazzati perché il figlio del potente “fascista” la fa franca ma domani, se capiterà, lo stesso non sarà detto e scritto per i figli di altri potenti. Sono andato a rispolverarmi certi articoli penosi di Repubblica di due anni fa, le Concita, le Chiara Valerio che si scandalizzavano di La Russa il vecchio perché diceva di essere certo dell’innocenza del figlio, ossia indulgeva nello stesso familismo più o meno amorale, se si vuole di potere, che qualsiasi mammetta coraggio pratica in Italia essendo il familismo, come diceva Longanesi, l’unica vera religione popolare del Paese, in grado di collegare gli strati eccelsi a quelli infimi. Frase volendo inopportuna, ma La Russa, per quel che si seppe, non arrivò mai a dire che sulla base delle proprie certezze i giudici non dovevano intromettersi, non dovevano azzardarsi, diceva di essere sicuro lui, da padre e da avvocato. Poi che potesse parlare anche da presidente del Senato, che quella potesse essere vista come una frase in codice, come un messaggio, è un altro paio di maniche.

Sta di fatto che oggi quei giudici si fermano davanti all’impossibilità di procedere per via esoterica di fronte ad un contesto di giovani privilegiati, tutti, che giocano un po’ troppo a fare gli adulti decadenti, viziosi, “in modo volgare e maleducato” ma se una di queste fanciulle ci arriva talmente piena di tutto da non sapere più chi è e come ci è finita lì, diventa problematico coglierne il mero e indiscutibile ruolo di vittima. Volendo, c’è del moralismo pedagogico anche in questo, ma una pedagogia invertita, che si decide a fare i conti con la realtà. Lo scritto epocale della Chiara Valerio riletto oggi ha un valore anche quello educativo, insegna che non tutti possono fare i giornalisti, che oggi il giornalismo è un refugium peccatorum per senz’arte né parte, che non basta buttar dentro tutto quello che passa per la testa, che il fricantò di pensieri deboli è indigeribile, è la negazione di ogni informazione analitica.

Che le cazzate monumentali infilate come grani del rosario woke restano cazzate, desolanti per mediocrità concettuale e stilistica – ma chi l’ha detto che una sedicente scrittrice debba essere una commentatrice di vaglia? Una che per puntellare le sue tesi ginnasiali si aggrappa ancora a quella rottura di coglioni di Furio Jesi che da mezzo secolo fornisce nel suo trascurabile saggio Cultura di destra false ragioni ai denigratori della cultura di destra che non conosceva, che non stava nel mussolinismo caricaturale quanto nel kultupessimismus di Skinner, di Freud.

Questa Valerio che non se ne faceva una ragione del familismo maschilistico di La Russa il vecchio, è la stessa che ha invitato a un festival letterario un apprendista filosofo, uno di questi che girano e col fumo delle parole si fan su le annoiate signore borghesi di mezza età: lo ha difeso al punto da creare uno di quegli scismi ridicoli nel compagnettismo di sinistra, col fumettaro Zerocalcare che si dissociava per tempo, sapendo come andava a finire: due giorni dopo il Caffo finiva condannato per abusi e pesanti abusi su una ex, vessata con insulti futuristici, “vacca da latte”, ma Valerio, in arte Chiara, non trovava una parola di denuncia, non le tornava il maschilismo bianco tossico patriarcale, bastava fare come in Sicilia, calati juncu ca passa la piena, bastava aspettare “un attimino” che la faccenda scemasse, se possibile dirottando il perbenismo di genere sulle bestialità di La Russa il giovane. È andata male, sarà colpa di Trump, ma i nostri scritti restano.

Max Del Papa, 9 aprile 2025

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