La sinistra continua a odiare gli imprenditori

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L’imprenditore è un malfattore, un evasore, uno sfruttatore. È questo il pregiudizio negativo più diffuso nella cultura antipolitica italiana. Poco conta che fare impresa in Italia è davvero un’impresa che può condurre o al fallimento o all’impazzimento o al suicidio. Un imprenditore è e resta un poco di buono, uno che se è ricco o anche solo benestante lo è perché ha rubato, ha combinato qualcosa di poco chiaro, un tipo senza scrupoli che sfrutta situazioni e lavoratori. Ecco perché bisogna mettere un tetto ai guadagni dell’imprenditore: perché nella sostanza l’impresa è un sistema truffaldino dove la disonestà è la vera strategia. Si spiegano così le parole del ministro Teresa Bellanova: “A un imprenditore non può essere consentito guadagnare fino all’inverosimile”.

L’origine del pregiudizio, che il ministro Bellanova ha così bene espresso, ha la sua origine nella cultura cattolica e nell’ideologia comunista. Per i cattolici il denaro è lo sterco del demonio. Per i comunisti il profitto è il risultato dello sfruttamento. L’imprenditore, dunque, non ha scampo: è condannato in partenza in modo pregiudizievole. Il lavoro è esaltato a parole ma è condannato nell’azione. Nella civiltà moderna o borghese, infatti, ciò che dà libertà non è il potere ma il lavoro. L’ascesa della libertà e dei suoi istituti politici, giuridici, economici è in realtà l’affermazione della borghesia che attraverso il lavoro conquista autonomia eliminando da una parte i privilegi nobiliari e dall’altra l’utopia socialista. Il lavoro garantisce libertà perché media i conflitti sociali. Ma è proprio la figura del borghese – “il cavaliere dalla triste figura” come dice Marx – che è osteggiata dagli aristocratici e dai rivoluzionari che vogliono che la società o ritorni indietro verso il privilegio o vada avanti verso l’utopia. In entrambi i casi a farne le spese è il lavoro che è esaltato a parole solo per essere negato nei fatti.

Cosa sono le varie forme di nazionalizzazione se non dei privilegi o delle utopie che nascondono un risentimento verso il lavoro? Cos’è l’eterna litania sul neoliberismo se non il tanto comodo quanto illusorio convincimento che lo Stato (cioè il potere organizzato da un partito) debba decidere i prezzi, le scelte, gli errori? Cos’è lo statalismo se non edonismo organizzato e poltronismo mascherato da morale? Cosa sono le periodiche dichiarazioni dei grillini, ora di Di Maio ora della Lezzi, contro il libero commercio dei negozi se non una forma di socialismo a spese altrui? Cos’è l’idea che si possa e si debba chiudere l’ex Ilva e aprire una bella università del turismo, come diceva Di Maio, o investire nella mitilicoltura (le cozze), come dice la Lezzi, se non una subcultura contraria all’impresa, al lavoro, alla modernità e, in definitiva, alla civiltà borghese? E’ questo, a ben vedere, il limite stesso della storia borghese: produce ricchezza diffusa e alleva nel suo seno i figli del benessere che prima o poi, un po’ per ignoranza, un po’ per invidia, un po’ per pigrizia, un po’ per tutte queste cose insieme, non tardano a sputare nel piatto dove mangiano.

È questo il motivo che dovrebbe spingere chi lavora a investire nella cultura e nella libertà della scuola dal monopolio statale. Perché la libertà si difende anche e soprattutto con la cultura dimostrando che il lavoro è il fondamento della democrazia liberale mentre i nemici della democrazia rappresentativa (e ce ne sono molti) predicano l’idea illusoria della liberazione dal lavoro ed elogiano un mondo senza lavoro in cui lo Stato provvede a tutto e a tutti mentre nei fiumi scorrono il latte e il miele e la gazzella va a spasso con il leone.

Giancristiano Desiderio, 19 novembre 2019

 

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