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Le chiacchiere di Roma non servono a chi lavora

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Taluni pensano che la convocazione degli Stati generali sia stata un’abile mossa del premier per mettersi in mostra. Altri che sia un’arma di distrazione di massa: il governo per dieci giorni si farà vedere con le «migliori intelligenze» per gettare fumo negli occhi.

Infine, c’è chi, più subdolamente, ritiene che Conte li abbia convocati per smontare il lavoro fatto dalla task-force di Vittorio Colao, scelta proprio dall’esecutivo, ma le cui proposte innescherebbero un mucchio di frizioni politiche: ce li vedete i grillini a votare l’allungamento delle concessioni, o il ministro dell’Economia a rimandare le scadenze fiscali, o la sinistra di Leu approvare gli scudi fiscali?

Temiamo che ci sia un piccolo pezzo di verità in tutte queste critiche, ma che non si colga l’essenza. Conte è il principe della «sotto-realtà» romana. Essa si nutre di titoli, di progetti, di analisi, di comitati, di incontri, di riunioni, di «allineamenti» (come si dice oggi), di ricerche legali e opportunità burocratiche, ma non ha la più pallida idea della «realtà». È come quel manager scarso che, davanti ad un problema, convoca una riunione, per condividere la crisi e non per affrontarla. È come quei banchieri che si facevano fare i piani industriali dai ragazzotti di McKinsey, che poi alla fine prendevano il loro posto. Conoscono, abbastanza, la teoria, ma non hanno la più pallida idea della pratica. Il successo per questi fenomeni, non solo pubblici, non è risolvere un problema, ma dare l’impressione di farlo. Manca loro del tutto la modalità esecutiva.

E pensare che Conte dovrebbe essere il capo dell’esecutivo. Sembra piuttosto una funzione di Outlook: quella che organizza l’agenda e, in automatico, la condivide con tutti i partecipanti.

Alla Fiat, dopo l’epoca dei grandi amministratori, arrivarono gli slider, giovani manager che eccellevano nelle presentazioni: non appena alcuni di loro assunsero ruoli di vertice, l’azienda soffrì. Non conoscevano le fabbriche, ma molto bene Powerpoint. Avevano la passione per il design del tappo della benzina, ma erano anni che non la mettevano da soli. È così per Conte e questo governo. Non sono in grado di «portare a terra» (orribile gergo manageriale di oggi) ciò che i loro comitati suggeriscono. Carlo Calenda dice efficacemente che il motivo risiede nel fatto che nessuno di loro abbia mai gestito un bar o una gelateria. Non basta.

Uomini di comando possono rientrare in due categorie distinte: la prima è di coloro che ritengono che un ordine, per via delle deleghe, sia eseguito per il solo fatto di averlo scritto più o meno bene e di averlo dato. La seconda vuole invece andare a fondo, perde più tempo, segue passo per passo la procedura, sa perfettamente che un ordine parte in un modo e termina in un altro: insomma, non si sente libera fino a quando ciò che ha chiesto si realizza. Pensateci un attimo e prendete gli uomini chiave della recente storia governativa: Conte, Tridico (Inps), Parisi (navigator e lavoro), Arcuri (mascherine), Colao (otto settimane da Londra per dire cose giuste in delle belle slide), Azzolina (scuola), Borrelli (Protezione civile) hanno in comune dichiarazioni roboanti che, una volta scritte, svaniscono.

Dall’altra parte prendete un qualsiasi imprenditore, piccolo, medio o grande, qualsiasi artigiano, ogni commerciante, la gran parte dei professionisti e pensate un po’ a come debbono affrontare ogni giorno le conseguenze del lockdown. Ritenete che stiano assumendo consulenti? Credete che non controllino anche il minimo dettaglio delle loro spese? Pensate che facciano molte comparsate televisive? O che si prendano dieci giorni per consultare l’universo mondo, per capire dove investire i quattro soldi che hanno forse racimolato? Ma per carità.

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