Le lettere dal fronte dell’eroe Netanyahu

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In queste settimane in cui il conflitto tra israeliani e palestinesi è riesploso con una forza e una violenza sopite da qualche anno, l’attenzione è tornata a focalizzarsi su quel territorio prodigioso e abissale, di bellezza assoluta e, talvolta, teatro di altrettanto orrore. Leggere libri di storia sulle vicende d’Israele è cosa buona giusta, necessario per capire ciò che accade. Ma i libri di storia fanno spesso fatica a restituire l’essenza di quel conflitto costante, anche quando dormiente, per chi quelle terre le abita.

Il fratello maggiore dell’attuale primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, si chiamava Yonathan. Cadde in combattimento, nel 1976, a soli trent’anni, mentre al comando della più prestigiosa unità d’élite dell’esercito israeliano metteva in salvo più di cento ebrei tenuti in ostaggio a Entebbe in Uganda dopo che il loro aereo era stato dirottato da terroristi palestinesi e tedeschi.

Le lettere di Yonathan Netanyahu scritte a partire dal 1963, raccolte dalla famiglia dopo la sua morte, celebrata a ragione in Israele come quella di un eroe classico, sono un involontario romanzo di formazione. Brillante tenente colonnello israeliano, in queste lettere scritte ai familiari, agli amici, alle donne della sua vita, traccia la drammatica parabola di un ragazzo che si fa uomo in uno dei luoghi più difficili del mondo. Un giovane studente ammesso ad Harvard che decide di tornare nel suo Paese, di rimanere nell’esercito a combattere per il suo ideale: la sopravvivenza di Israele. La breve vita di Yonathan, nel corso della quale combatterà la Guerra dei sei giorni e quella dello Yom Kippur – ma in realtà vivendo in uno stato di guerra permanente – è anche un documento storico, inusuale per i nostri tempi, che ci restituisce la dimensione eroica dell’uomo.

In una lettera bellissima e tremenda del 1968, scritta a ventidue anni, a distanza di un anno dalla fine della Guerra dei sei giorni, scrive, in maniera che è ancora perfettamente attuale, quanto segue: “Come sarebbero facili le cose se questa fosse stata ‘una guerra che fu’, niente più che una parte di un lontano passato. Ma non è così. Sono riuscito a fare così tanto dal giugno 1967: mi sono sposato, sono venuto negli Stati Uniti, ho studiato ad Harvard, ho viaggiato in Canada e, prima di questo, mentre stavo venendo in America, ho visitato Parigi, e poi sono tornato in Israele, e ho già iniziato a lavorare qui, a vedere il Paese e mi sono organizzato. Eppure non era la guerra ad essere qualcosa di passeggero ma tutto ciò che è venuto in seguito.

Una specie di tristezza si è impadronita di me. Non mi controlla e non dirige le azioni, ma è dentro di me, esiste, sprofondata in un ben nascosto angolo del mio essere. Questo non è esattamente un senso di vuoto ma qualcosa che mi fa sentire un grosso peso: una sorta di pesante vuotezza. Forse questo sentimento non esiste soltanto in me. Ci sono volte in cui intuisco il grido e la profondità di questa tristezza in altri, in tutti quegli amici che sono venuti fuori dalla guerra con il corpo intatto. Penso che tutti noi ne siamo venuti fuori feriti, cambiati, più sensibili, più premurosi, e molto, molto più vecchi.

Quell’armonia che caratterizza il mondo di un giovane non è più parte di me. Sebbene sia ancora giovane, ancora forte e sicuro di me e delle mie capacità, non posso ignorare il fatto che un senso di vecchiaia si è impadronito di me. Non sono mai stato vecchio, non di età. Perciò non so se questo sentimento che ho è lo stesso che viene in età avanzata. Ma senza dubbio è una forma di vecchiaia, una vecchiaia speciale dei giovani uomini.

Quando cerco di capire perché sia così e perché questo sentimento sia cresciuto in me, raggiungo la conclusione che non solo la guerra, le uccisioni, i morti, le ferite e le disabilità siano da incolpare, queste cose possono essere superate. La loro impronta può forse essere attenuata dal tempo. La vera causa è il senso di impotenza di fronte a una guerra che non ha fine”.

Liberilibri, 24 maggio 2021

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