Non so come la penseranno i lettori di questa testata ma io non ho problemi a dire che la foto dei migranti, diciamo pure dei clandestini, condotti in catene sull’aereo che li rimpatria, l’ho trovata aberrante; aberrante e eccessiva, aberrante e superflua. Come guastare in un flash cento premesse incoraggianti quanti sono i decreti immediatamente adottati per demolire la ignobile follia woke. Bene: e che bisogno c’era di esagerare, di eccedere nel disprezzo, nel travolgere il rispetto definitivo che si deve agli umani?
L’obiezione degli ultrà trumpiani è prevedibilissima: ci voleva un segnale forte e in ogni caso noi europei, mollicci, compromissori, non possiamo capire l’etica-estetica di un Paese tradizionalmente rude, all’occorrenza feroce. È una obiezione abusata e peraltro pretestuosa per svariati versi. Per cominciare, l’America degli ultimi anni non si è dimostrata più risoluta di noi, tanto è vero che il segnale di Trump va precisamente in questa direzione, vuol significare, in modo drammatico, ostentatamente brutale, che la ricreazione è finita, che si torna ad osservare la legge con tutte le sue durezze e all’occorrenza le sue cecità.
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L’America non ha meno problemi di contenimento di noi, il pubblico dibattito così come le sue serie tv da tempo denunciano, a modo loro, i problemi dei corpi di polizia depotenziati, demansionati, adibiti a compiti di argine passivo, esattamente come in Italia. Ma serve davvero una foto del genere per far capire che l’aria è cambiata? Ovvero la riequilibratura dei servizi di tutela del cittadino passa necessariamente per simili esibizioni di violazioni dell’umanità se non dei diritti umani? E poi, chi l’ha detto che, di fronte a tradizioni diverse debba prevalere quella più rozza? Dovremmo vergognarci del nostro garantismo democratico, per cosa? Per paura di risultare troppo provinciali, ovvero di non esserlo abbastanza?
Perché qui siamo a livelli da basso impero. E garantismo non significa, come avviene in Italia, tutelare le ragioni dei farabutti, significa ricordare sempre che c’è un limite sotto il quale, oltre il quale la democrazia non può scendere. Se la questione è mandare un segnale inequivocabile, perché allora non fare come Mobutu che in Zaire, ogni tanto, mandava a far fuori un centinaio di pendagli da forca e lasciava liberi gli altri, che raccontassero pure la barbarie cui avevano assistito?
In Italia restiamo giustamente sconvolti alla visione di personaggi di potere, politico o mediatico, costretti in ceppi: non è rispettoso della persona, abbiamo deciso, non è necessario; è un abuso. A tanto ci ha portato un percorso democratico fatto di polemiche, di riflessioni, di scontri fin dai tempi di Enzo Tortora (consumato, dato in pasto e morto da innocente), 40 anni fa, esploso una decina d’anni dopo con Tangentopoli, con gli scatti dei vari Carra, Greganti e tutti gli altri portati via ammanettati: dovremmo vergognarci di avere superato la foglia di forca che cova sempre la plebe quando il potente fino a ieri riverito non le serve più, quando è caduto? Bene: non si capisce perché il rispetto basilare, elementare dell’essere umano non debba venire mantenuto anche nei confronti di disperati, magari balordi, magari peggio, che però nascondono una storia a noi ignota, sicuramente crudele, che da una foto in fila non potremo più che intuire. Dagli schiavettoni allo schiavismo è un attimo, e questa è proprio l’immagine di uno schiavismo di ritorno. Al secondo giorno di mandato del nuovo Presidente. Superflua, inutile immagine, perché se potrà colpire, scioccare i benpensanti, da una parte e dall’altra, difficilmente servirà a dissuadere chi non ha più niente da perdere e si getta all’assalto dei confini.
Chi scrive spera, senza illudersi, di non venire frainteso: ogni giorno offre ai suoi lettori cronache anche puntute, polemiche sulla sciagurata politica europea e nazionale di assimilazione del peggio, senza controlli, all’insegna di una inclusività falsa quanto irresponsabile: questo, però, è tutt’altro discorso e stende la sua ombra su prospettive sinistre. Se Trump voleva mandare un messaggio agli imperi contrapposti, alle dittature e alle teocrazie con cui l’America torna a misurarsi, è un messaggio che suscita perplessità, che sembra quasi infantile, come a voler dire: possiamo essere altrettanto feroci e disumani di voi: e quindi? Ma la forza di una democrazia sicura di se stessa non sta nello scampare gli eccessi?
Se Trump voleva comunicare indifferenza verso l’Europa molle e infetta, c’è riuscito, ma al prezzo di un’arroganza controproducente, che offre il pretesto all’ipocrisia dem e progressista. Se poi si vorrà minimizzare, suvvia, è “solo una foto”, quante storie, allora questa sarà la conferma che quell’immagine è vana, è pretestuosa. Ma non innocua. Niente affatto. È aberrante, almeno per chi, pur nella fatica di un vivere sociale fatto di ingiustizie, di impunità, di soprusi, ancora mantiene uno spirito cristiano o semplicemente umano. A vedere quella fila di spettri legati l’uno all’altro da catene, veniva in mente una musica grottesca, sinistra, angosciata: le improvvisazioni sopra i canti popolari ungheresi di Béla Bartok. Musica del 1920, che anticipava vorticose tragedie per l’umanità.
Max Del Papa, 25 gennaio 2025
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