Giuste le ragioni, sbagliati i metodi. Difficilmente può esistere un modo più efficace per riassumere l’approccio assunto dalla nuova amministrazione americana rispetto al dirompente fenomeno migratorio in atto. Perché, se da un lato è sacrosanto che uno stato sovrano si adoperi nel tentativo di porre un argine all’immigrazione illegale cercando di regolamentare i flussi, dall’altro non si può prescindere dall’osservare il fatto che il controllo dei processi migratori possa egualmente avvenire in maniera efficace pur utilizzando diverse accortezze e strategie di comunicazione.
Per essere più chiari: l’intenzione di Donald Trump di intervenire tempestivamente per regolamentare i flussi in entrata, così da limitare l’immigrazione selvaggia e indiscriminata, e tenere possibilmente conto delle reali esigenze del mercato del lavoro, è di certo comprensibile e, per di più, pienamente condivisibile. Molto meno condivisibile è invece l’esigenza, che tuttavia, evidentemente, Washington avverte, di esasperare a tutti i costi i toni del dibattito politico e ridurre una battaglia che potremmo tranquillamente definire ‘giusta’ in una infame campagna di deportazione di massa.
È infatti questo ciò che deve aver pensato una larghissima fetta dell’opinione pubblica mondiale dopo aver preso visione del contenuto social partorito nelle scorse ore dalla Casa Bianca, che ritrae una folta pattuglia di migranti ammanettati, accompagnato dall’inquietante espressione “I voli di deportazione sono iniziati. Promessa fatta, promessa mantenuta.”
Un’immagine forte, enfatizzata a sua volta da un messaggio ancor più forte, pensata probabilmente per una duplice finalità. Primo: dimostrare agli Stati Uniti e al mondo intero che la nuova amministrazione americana fa sul serio e mantiene fede alle promesse fatte in campagna elettorale. Secondo: dare prova del fatto che la stretta anti-migranti è reale e che nessuno può permettersi di infrangere la legge e mettere piede illegalmente nel territorio statunitense. Nulla da eccepire sul merito della questione, per carità. Anche perché, non solo è giusto, ma è altresì doveroso che un governo democraticamente eletto rispetti programmi e impegni precedentemente assunti con i propri elettori e si adoperi nel tentativo di far rispettare le leggi dello Stato.
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Assai diversa è invece la questione concernente il metodo, o meglio, i metodi utilizzati dallo staff presidenziale per perorare la causa anti-immigrazionista cara alla nuova amministrazione. Davvero non esisteva un altro modo per far sapere al mondo che, almeno negli Usa, in materia di immigrazione la pacchia è veramente finita? Davvero il percorso minato intrapreso da Washington era l’unico e il solo percorribile? Difficile potere credere che sia effettivamente così. Quella dell’amministrazione statunitense appare piuttosto una mossa cercata, pianificata e voluta, sebbene probabilmente poco ponderata, dato l’uso spregiudicato di contenuti e lunguaggi ‘estremi’ che potrebbero seriamente finire per rivelarsi un boomerang per il neo presidente Donald Trump.
E, si badi bene, non si tratta semplicemente della necessità di compiacere o meno l’opinione pubblica o di seguire necessariamente una linea di comportamento in linea con l’insulsa dottrina fondata sulla correttezza politica. In ballo c’è la stessa credibilità di un esecutivo, che, è bene ricordarlo, rappresenta legittimamente una delle più compiute democrazie del pianeta, che possiede tutto il diritto di adottare delle politiche, anche severe, di contrasto al fenomeno dell’immigrazione illegale, ma che ha, al contempo, il dovere di non esasperare oltremodo i toni e non oltrepassare determinati limiti. Anche perché, come già spiegato in precedenza, il confine che separa una ‘battaglia giusta’ da un’infamia di cui doversi poi dolere è veramente molto labile.
Salvatore Di Bartolo, 25 gennaio 2025
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