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Nazionalizzare il debito pubblico? Non è la soluzione

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C’è un’ideuzza che gira e che sembra prendere sempre più piede. E cioè che l’Italia sarebbe un Paese felice se il suo debito fosse tutto in mano agli italiani. Su 1.700 miliardi di titoli in circolazione ce ne sono infatti circa 1/3 oltre confine. Maledetti forestieri. Sono loro che, non fidandosi più di questo Paese e di questo governo, non vogliono più sottoscrivere i nostri Btp e che, fidandosi delle agenzie di rating che continuano a bastonarci, pretendono sempre di più. Che, quando si parla di debito pubblico, vuole dire solo una cosa, e cioè pagare interessi più alti (in sostanza è il cosiddetto spread, anche se quest’ultimo, in realtà, misura solo la differenza tra quanto paghiamo noi rispetto al venditore più affidabile).

Ecco il tocco di bacchetta magica: vendiamo titoli solo agli italiani, teniamoci il debito tra le mura di casa nostra. Ci sono delle proposte in questo senso, anche molto ragionevoli, come quella del leghista Armando Siri. L’idea di fare dei mini Bot detassati se detenuti a lungo periodo (si chiamano Cir) non è di per sé sbagliata. Ma con 360 miliardi da raccattare ogni anno non si potrà certo risolvere lo scarso appetito internazionale solo in questo modo.

E ritorniamo a bomba all’idea folle di pensare che il debito è nostro e ce lo gestiamo noi. Ronald Reagan, non esattamente un comunista, in fondo, a chi gli obiettava del suo debito in crescita rispondeva: finalmente è diventato grande abbastanza da saper badare a se stesso. La piccola differenza è che, all’epoca, il deficit statunitense era fatto per ridurre le tasse e non per il reddito di cittadinanza. Ma tant’è. Il debito resta pur sempre un problema di dimensioni. E di una sua distribuzione.

Cosa succederebbe insomma se tutte le nostre cartelle passive, destinate per di più a crescere, fossero detenute da residenti italiani? Intanto non si capisce per quale motivo debbano comportarsi in modo diverso dai loro colleghi stranieri. Quanto più annusassero il rischio che il loro prestito è traballante, tanto più richiederebbero tassi di interesse elevati. Si potrebbe arrivare fino al punto di non trovare italiani disposti a comprarlo. Non si tratta certo di una estremizzazione. Nonostante e proprio in virtù della nostra capacità di risparmio, siamo piuttosto attenti e prudenti ad impiegarlo. Negli anni ’70 si obbligava la banca centrale italiana a comprare il debito, proprio perché i privati ne stavano alla larga. E l’economia si avviluppò in un serpente di tassi alti, inflazione alta e bassa crescita.

Dal punto di vista puramente ipotetico se tutto il debito italiano fosse in mano italiana, si assisterebbe ad un gigantesco trasferimento di ricchezza. Nell’ipotesi, tutta da verificare, che l’inflazione fosse contenuta, si riproporrebbe quella che un tempo era considerata l’odiata classe sociale dei rentier. Loro seduti sul divano a godersi le cedole al 5-10 per cento e lavoratori e pensionati a pagare il conto.

Si tratta di un modellino economico che non gira più. I mercati sono collegati, l’Italia ha la stessa moneta di paesi con bassi tassi di interesse. Ma, in linea di principio, resta il fatto che pagare tassi di interesse alti ad una categoria che vive di rendita, non sembra proprio una delle migliori prospettive per un paese che voglia pensare al proprio futuro.

Nicola Porro, Il Giornale 27 ottobre 2018

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