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Perché i dati sbugiardano i chiusuristi

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Che Mario Draghi si sarebbe trovato più a suo agio con le politiche macroeconomiche che non con tutto il resto, lo si sapeva. Quello che però in molti di noi credevamo, e che continuiamo ancora a credere, è che la sua cultura anche umanistica, il naturale e sobrio buon senso, la concretezza, ne avrebbero fatto qualcosa in più di un semplice tecnico, seppur del sommo livello.

Devo dire che quanto affermato l’altra sera in un punto della sua conferenza stampa, che i media conformisti hanno subito riportato compiaciuti ed enfatizzato in funzione antisalviniana, contraddice a pieno il profilo della personalità a tutto tondo che ci eravamo fatti. È infatti da tecnocrate un po’ chiuso mentalmente dire che “se sia pensabile o impensabile riaprire ad aprile dipende dai dati che abbiamo”. In effetti, anche se il senso comune, quello delle persone semplici, porterebbe a mitizzare sua Maestà il Dato, i “numeri che parlano da soli”, il “lo ha detto la Scienza”, da un paio di secoli almeno a questa parte la filosofia e l’epistemologia, e anche la scienza più avveduta, sanno che i dati e i fatti, come diceva Nietzsche,  sono “stupidi” e che esiste solo la loro interpretazione. E, fra l’altro, l’interpretazione “oggettivistica”, mitizzante, che ne ha dato Draghi è la più controversa possibile.

Proviamo a spiegarlo in soldoni, semplificando un po’. Intanto, c’è un problema relativo alla raccolta dei dati: chi viene definito “contagiato”, chi è che finisce in terapia solo per il Covid e non per la compresenza di altre serie patologie, chi lo certifica? E le intenzioni del certificatore sono del tutto scevre da pregiudizi o interessi extrascientifici? Poi ci sono problemi di proporzione: non ha senso parlare di contagiati in sé senza rapportarli al numero dei controlli effettuati. C’è anche un problema di correlazione: qual è il rapporto fra una determinata politica di contenimento e gli effetti sul virus?

Ieri La Verità con un’inchiesta ha smontato la “razionalità” della chiusura per colori; ma anche Luca Ricolfi con i suoi tanti articoli ci ha dimostrato, in tutti questi mesi, come gli stessi dati possono essere letti in un modo o nell’altro, e tutti in modo formalmente “scientifico”. Come se non bastasse, c’è però un ulteriore problema da considerare, e che nemmeno Ricolfi considera a fondo da eccellente scienziato sociale qual è: si può estrapolare l’elemento Covid da tutto il resto? Qui ci sovviene Hegel, con la sua idea dell’idealità del finito. O anche, più banalmente, Sergio Endrigo che cantava che “per fare un tavolo ci vuole il legno, per fare il legno…”: così aprendo un processo, avrebbe sempre detto Hegel, di “cattiva infinità”. In sostanza, nel mondo è tutto connesso: per curare i malati di Covid quante energie e risorse sottraiamo alla cura di altre malattie, anche molto più gravi? E quali sono, ad esempio, le conseguenze della vita da reclusi sulla psiche, oltre che sull’istruzione (che pure dovrebbe starci a cuore), dei nostri ragazzi? Sulle conseguenze economiche già tanto si è detto. E quelle sociali? Una vita senza relazioni è degna di essere vissuta, è pienamente umana? La stessa libertà, checché ne pensino i liberali individualisti, può esercitarsi solo davanti a un computer, nel chiuso di una stanza? E si potrebbe continuare, con le domande, per pagine e pagine. Ma si arriverebbe sempre al punto: i dati sono sempre da interpretare, non sono mai “oggettivi” (a parte il fatto, ma qui andiamo sul difficile, che la stessa “oggettività” è una costruzione mentale).

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