Società

Perché le etichette ci fanno male

L’esigenza di categorizzare è umana, ma spesso sono un forte deterrente per la nostra crescita

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Tra le tessere del supermercato e mille bigliettini smemorati conservo nel portafoglio una vecchia polaroid di me bambina: seduta  a gambe incrociate su un prato ingiallito, tengo nella sinistra un libricino con le pagine stropicciate, mentre la destra solleva un bastoncino avventuroso appoggiato sopra la spalla. Lo sguardo è deciso, il taglio di capelli improbabile, ma c’è tutto, tutto quello che amo. Il disordine, la libertà, il sapere e l’azione. Quand’è che mi sono persa? Quando le etichette mi hanno definito.

“Mettetemi un’etichetta, e mi avrete annullato” scrisse Søren Kierkegaard.

Ci sono delle etichette, alcune piccole, apparentemente innocue, altre significative che spesso ci vengono attribuite fin da bambini e finché non usciamo dal nido familiare non le mettiamo mai in discussione; altre invece ce le affibbiamo noi, forse per cullarci e giustificare la nostra assenza di cambiamento o i nostri fallimenti. Ce le attribuiamo da soli per non mettere i piedi su un terreno sconosciuto, fidiamo in quella certezza, anche quando è limitante, perché ci culla quanto basta. Alcune etichette hanno effetti positivi, ci galvanizzano e ci motivano rinforzandoci nelle scelte e quelle sono un detonatore che ci spinge all’azione, ma quando la definizione che ci diamo o che ci danno è in negativo, l’etichetta può essere un forte deterrente per la crescita.

È facile servirsi di quel marchio come di una giustificazione per rimanere identici, una coerenza al ribasso che per orgoglio o per pigrizia ci sentiamo tenuti a non smentire; ma l’io è fatto per muoversi e impacchettarlo in definizioni impoverenti lo porta a cessare di esistere.

Eppure alla gente piace mettere etichette, assegnare gli altri a una categoria netta. È più facile così, ci si districa meglio nel mondo. L’esigenza di categorizzare tuttavia è umana, talvolta necessaria, si rivela una sorta di pregiudizio di cui non bisogna scandalizzarsi, ma che deve essere liberamente smentito alla prima occasione con una battuta, un sorriso o un guizzo contrario. Se sei un prodotto finito, infatti, smetti di crescere. Nemmeno i grandi autori della letteratura sono poi così facili da etichettare, dal momento che nel loro percorso hanno vissuto delle vere e proprie trasformazioni che si sono riflesse nella loro arte.

La verità è che noi siamo in divenire, il mio io di oggi, se si è fatto provocare dalle esperienze, può già essere un pochino diverso da quello di ieri, anche se il cuore, la natura di partenza rimane la medesima, anzi, ascoltarla e rispettarla è necessario, per non coltivare fuori da sé rami destinati a seccare. Gli incontri, i sì e i no, gli scontri sono passi che ci fanno avanzare verso noi stessi e verso gli altri. Più ci vediamo in azione e più siamo disposti ad accogliere l’altro, a perdonarlo, perché nelle sue cadute ci assomiglia, nelle aspirazioni anche.

Siamo una creazione costante. Una meraviglia. Come ci spiega sant’Agostino: “Tu uomo ti incanti ad ammirare le infinite cose attorno a te e tu, l’ammiratore, non avverti d’essere proprio tu la più miracolosa delle meraviglie”.

Siamo un seme che non deve essere coperto da un’etichetta, ma da una terra fertile.

Fiorenza Cirillo, 8 febbraio 2023

 

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