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Perchè lo spread conta. Ma ora non ne parla nessuno

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I giornali stranieri lo hanno definito il “new normal”. E il consigliere delegato di Intesa SanPaolo, Carlo Messina, presentando il nuovo impegno della sua banca in campo assicurativo, lo ha chiamato nello stesso modo: new normal. Cosa diavolo sia questa “nuova normalità” per il settore finanziario italiano è presto detto. Azioni e obbligazioni italiane devono pagare un prezzo per il solo fatto di essere tricolori. Messina ha detto chiaro e tondo che l’incertezza politica è costata alla banca circa 10 miliardi di euro in capitalizzazione.

Colpa solo del governo giallo=verde? Lo stesso Messina, dotato di una spiccata dote comunicativa, ha sottolineato come il ministro dell’economia Tria abbia detto le cose giuste, anche se il danno sui mercati era stato fatto. Ma in tema di tassi ci sono due fattori da tenere in considerazione oltre alla politica. Il primo, tipico dei mercati, è che questi ultimi cercano sempre una scusa, un grilletto da premere dicono gli anglosassoni, per andare in una direzione.

E il combinato disposto delle scelte della Bce di non comprare più obbligazioni come se non ci fosse un domani e il successo dei partiti populisti, è la buona scusa per cambiare verso su mercati che per anni sono stati inondati di liquidità, con tassi zero, se non negativi. Non si poteva continuare così e trovata la scusa, i mercati hanno venduto.

Non si pensi che qui si stia parlando solo di aria fritta. A parte lo stato che ogni anno si deve finanziare per una ammontare che balla tra i 300 e i 400 miliardi di euro, anche le grandi imprese hanno necessità di finanziarisi con obbligazioni. E come direbbe Salvini, anche per loro la pacchia è finita.

La prima a rinunciare ad una emissione (era in dollari) è stata l’Eni. Hanno seguito Atlantia e Fincantieri. Questa rischiosa tendenza si è invertita la settimana scorsa con Tim, che ha deciso di andare sul mercato con un prestito obbligazionario da un miliardo di euro. Scelta coraggiosa di questi tempi, e come abbiamo visto più unica che rara, per il mercato italiano. La mattina il book (il registro degli ordini) stava andando piuttosto bene, riempendosi di richieste. È poi girato il vento, complici alcune dichiarazioni politiche che in queste settimane vengono radiografate al micron, e la domanda si è rarefatta.

Alla fine Tim si è dovuta accontentare di 750 milioni sul miliardo richiesto. Chapeaux al coraggio, in ogni caso. Il tasso per l’obbligazione (sette anni e sette mesi) è stato pari a 2,876%: se ci pensate è niente rispetto a quanto Telecom era costretta a pagare solo un lustro fa per duration simili. Nel comunicato dell’azienda si legge inoltre che il tasso medio del debito del gruppo si aggira intorno a quota 4,6%. Livelli stellari di questi tempi: evidentemente nella media del costo del debito sono comprese anche operazioni di copertura. Il non detto del comunicato è che l’emissione obbligazionaria è stata comunque realizzata a tassi molto inferiori a quelli del costo medio della raccolta in essere. Bene dunque. In realtà a vedere la curva dei tassi della stessa carta telecom, l’emissione dei giorni scorsi, a parità di scadenza, ha un rendimento superiore di circa mezzo punto percentuale: un’enormità.

Per farla semplice Tim si è finanziata sul mercato ad un costo superiore del 20 per cento a quanto lei stessa si era finanziata nei mesi scorsi. Tecnicamente ci può essere un premio per le nuove emissioni. Ma non così alto.

Tim insomma oggi per finanziarsi spende un paio di punti percentuali in più rispetto ai suoi concorrenti europei. Difficile competere così. Questo in fondo è la morale dello “spread” e del “new normal”: due paroline inglesi, che banalmente ci dicono come le imprese italiane per farcela debbono fare sforzi doppi rispetto a tutti i loro concorrenti: quelli asiatici per le regole lasche di cui godono, quelli occidentali per i tassi ancora bassi che riescono a pagare.

Nicola Porro, Il Giornale 23 giugno 2018

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