Economia

Ricordiamoci dei Tango Bond

debito Bce © bluejayphoto, airdone e rcphotostock tramite Canva.com

Dal momento che sono stato chiamato cortesemente in causa su queste pagine da Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, sul tema dei rapporti piuttosto complessi tra debiti sovrani e creditori, mi sembra doveroso precisare in premessa alcune cose sul default argentino – il settimo in ordine di tempo – dei primi anni duemila.

In particolare, i miei due interlocutori si stupiscono di alcune mie affermazioni in merito, in quanto avrei confuso il debito estero con il debito sovrano. Ora, senza entrare nelle dinamiche che crearono le premesse del citato default – in cui spicca  l’insensata ostinazione a voler tenere agganciato il peso al dollaro americano, spiazzando di fatto una economia incommensurabilmente meno competitiva di quella statunitense – , mi è sempre stato chiaro che in quel drammatico periodo la bilancia commerciale del grande Paese sudamericano si trovava in profondo rosso, con le proprie aziende fortemente indebitate con l’estero.

Tuttavia, occorre ricordare che il 23 dicembre 2001 il neoeletto presidente Adolfo Rodríguez Saá annunciò che l’Argentina avrebbe sospeso il pagamento del debito estero, cioè ben 95 miliardi di dollari. Una cifra importante che era in buona parte detenuta da circa mezzo milioni di italiani, attratti in quel periodo dall’offerta di alti rendimenti. Quindi non c’è stata alcuna confusione da parte mia, dal momento che si trattava di titoli del debito pubblico collocati all’estero, i cosiddetti tango bond.

Quello che invece mi premeva e mi preme ancora sottolineare, sebbene il default argentino del 2001 non è paragonabile a quello sfiorato dall’Italia alcuni anni orsono, è l’elemento che ha portato al collasso l’Argentina e che rischiava di travolgere il nostro Paese durante la crisi del 201: il cosiddetto effetto di una palla di neve che diventa una valanga.

In estrema sintesi, ciò avviene quando si innesca un generalizzato sentimento di sfiducia sui mercati finanziari nei riguardi di determinato debito sovrano. Come conseguenza immediata, ciò determina un aumento dei tassi d’interesse richiesti dai compratori del medesimo debito; aumento che nel caso dell’Argentina divenne incontrollato, impedendo ad un sistema economico già in gravi difficoltà, di estrarre sufficienti risorse per pagare i relativi interessi. Per questo motivo ribadisco che l’Italia, con un debito pubblico che sta per raggiungere i 3mila miliardi ed una economia che è affetta da decenni di bassa crescita, non ha alternative a mantenere una accettabile disciplina di bilancio, tenendo principalmente sotto controllo la spesa corrente, un vero e proprio buco nero di risorse che paralizza in buona parte lo sviluppo economico.

Certo, come ci ripetono i nostri amici, se le banche centrali riprendessero a ricomprare in modo illimitato i titoli emessi dal Tesoro, custodendoli poi in cassaforte per un tempo infinito, non ci sarebbe mai alcuna crisi del debito. Di questo, in verità sono assolutamente convinto, perché è esattamente ciò che è avvenuto quando la Bce calmierava i gli stessi tassi d’interesse, arrivando persino a farli diventare negativi. Ma in questo modo si è drogata l’economia dell’intera zona euro, creando i presupposti per la peste finanziaria dell’epoca moderna: l’inflazione. In sostanza si tratta di un effetto collaterale  il quale, anziché curare il malato, ossia lo sviluppo economico, ne distrugge  le sue stesse fondamenta, minando in profondità la base fiduciaria che, da quando è stato abolito il gold standard, rappresenta l’unico fattore che tiene in piedi il sistema capitalistico.

Ebbene, se per ipotesi ogni banca centrale adottasse in ogni frangente ciò che i sostenitori della Money Modern Theory propugnano, monetizzando all’occorrenza il debito pubblico, mi sembra evidente che il ritorno ad una economia del baratto non sarebbe una semplice opzione, bensì una tristissima realtà.

Claudio Romiti, 8 ottobre 2023

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