Cultura, tv e spettacoli

Sanremo, effetto Ferragni: Amadeus ora ha un problema

Il Festival dell’Ariston è alle porte ma già sembra che debba iniziare col piede sbagliato

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Vi piaccia o no, Sanremo vi tocca. E ci tocca. Impensabile pretendere di evitarlo, è lui che non risparmia noi: parliamone dunque, avendo cura di evitare l’aspetto artistico, pretestuoso perché di musicale si può solo dire niente, per soffermarci se mai, come da nostra abitudine, sulla sovrastruttura, quanto a dire i meccanismi, i significati, le connessioni col potere. Perché Sanremo è potere e come tale va visto: una colossale macchina propagandistica di sottovalori, di sollecitazioni sociali, di intrighi interni ed esogeni alla Rai a riflettere quelli dei partiti, della macchina istituzionale del regime che si pretende democratico.

Allora cominceremo col notare che questo Sanremo parte ovattato, smorto, in una sordina quasi mesta: nessun fremito, o polemica, o indiscrezione, non passano nemmeno le solite voci di plagio di questo o quel brano. Sì, qualche senatore che protesta perché non è stato scelto, magari per la trentacinquesima volta, sì, i soliti Jalisse che allungano la lista dei rifiuti, un bel giorno si rifaranno e magari li lasceranno anche vincere. Ma poca roba e di efferata noia: come se Amadeus in arte Ama, al canto del cigno sanremese, speriamo almeno, volesse uscire sul velluto. Poi qualcosa succederà, si farà succedere, è tutto previsto dal copione, però intanto la consegna è ferrea, ragazzi non fate casino, nessuna sorpresa, nessun problema, e i resoconti della vigilia arrancano, debbono rifugiarsi nella solita nostalgia a tenaglia fra inutile e insulso: arrivano a ripescare oscuri scenografi, diapositive sbiadite, le Berté col pancione (finto), le escandescenze telecomandate del povero Cavallo Pazzo (oggi abbiamo gli antifà da Teatro alla Scala), che è come far nozze coi proverbiali fichi secchi.

Si nota un raschiare il barile che ha dello sconcertante, Sanremo è una cosa implosa, un conte Ugolino che, dopo i figli, vuole divorare se stesso; l’unica entità che lo reitera e lo tiene su è questo AmaCiuri, l’ibrido mezzo Amadeus e mezzo Fiorello, con siparietti anche penosi, il Fiore che fa vedere il telefono e dentro c’è l’Ama a letto o sul cesso, robetta così. Ma può la televisione di Stato, può la kermesse populista per eccellenza del servizio pubblico aggrapparsi all’overdose di questi due, ormai indistinguibili e incombenti, questi AmaCiuri che ci scappano da tutte le orecchie e da tutti gli occhi, e ne abbiamo fin sopra i capelli? Telegiornali dalla mattina a notte fonda, speciali, ospitate “a sorpresa”, giornali di regime mobilitati, silenzio, parla Ciuri: che dice? Che Ama sta digerendo o sta scegliendo lo smoking, silenzio, parla Ama, e che dice? Che Ciuri è pronto, ah chissà che s’inventerà stavolta.

Ma cosa vuoi che si inventi, le solite trovate da villaggio vacanza trapiantato all’Ariston, la comicità di regime che non disturba nessuno, che accarezza col piumino da cipria. Come due anni fa, quando in un esemplare siparietto si umiliavano i novax, in perfetta aderenza alla propaganda di regime (che poi si andata in tutt’altro modo, e tragico modo, non è questione che possa turbare gli istrioni burocratici). Tutti zitti, tutti fermi, che nessuno muova un muscolo del vivo: Ciuri ha parlato! Ha annunciato la coconduttrice del Dopofestival, che non è una ragazza coccodè ma la veterana Marcuzzi la quale sgrana gli occhioni e dice: ah, Ciuri è pazzo, io non ne sapevo niente.

Certo, come no. Lo stato dell’arte è questo, e tutta la noia è il resto; qui si può già tracciare una morale politica, ideologica: nell’orgia di poveri cani spacciati per cantanti, o nella migliore delle ipotesi, di vecchie glorie ormai ridotte a dagherrotipi, non si trova materiale né sonoro né, men che meno, epico: di che parli? Dei ragazzini trapper con le creste? Dei Ricchi e Poveri che erano già considerati fuori tempo nel 1970 e stanno ancora qui e spiegano: Pupo ha sbagliato a cantare in Russia, noi non ci andiamo più. E sticazzi, direbbe Paolo Panelli. Succede che l’overdose genera rigetto e il sovradosaggio di pseudoartisti pregiudica qualsiasi sorpresa o brivido o fremito, qualsiasi distinzione.

C’è una fluida che porta una canzone dal titolo Click Boom e lo spaccia per canto di libertà o di democrazia o di fioritura, non è chiaro, e c’è un altro fluido indistinguibile che porta una roba che si chiama Assurdo e forse è autobiografica e annuncia: devo imparare a gestire le emozioni. Sì, e la sera fa freschino, tesò. Ma perché poi continuiamo a chiamarli fluidi se, casomai, ci sarebbe da segnalarne uno dico uno che non lo sia? E non si trova però. E Ama, pardòn AmaCiuri, è costretto a ricorrere al modernariato dei Tozzi e Cocciante che, da artisti stagionati, ma veri, almeno si provano, con sforzi immani, a issare un po’ il livello nella serata dei duetti.

Che poi tutti lo disdegnano, il Festival degli apprendisti artisti, dei barboni musicali, però intanto un passaggio all’Ariston fa sempre bene alla promozione. Insomma Sanremo, Italia, sconta l’effetto woke dell’Occidente globale da Disney alla Finanza truffaldina all’ambientalismo moralistico: a forza di rimestare nei buoni sentimenti, nel politicamente corretto, da dire resta niente, si può solo dire niente. E quello che si cava fuori, fa l’effetto della martellata in nuca fantozziana: neanche si mormora più del monologo di Cecchettin, Gino Cecchettin, ché perfino il patriarcato ha rotto un po’ le balle. E neanche si può riciclare, per ovvie ragioni cautelari, una Chiara Ferragni (o una Lucarelli), si possono solo reclutare i fluidi che però non risaltano più perché esistono solo loro.

Di canzonette non parla nessuno, quasi tutti i giornali al primo ascolto hanno abbozzato dei voti, ma si capiva che erano forzati, che c’era la macchina pubblicitaria, dietro, a premere: per carità, tenetevi alti, se no è la fine. Ma che la musica d’autore non passi per Sanremo, neanche più il conduttore ibrido, AmaCiuri, osa contestarlo. Ci sono dei poveruomini, delle poveredonne, dei poverifluidi dai nomi irritanti, Santi Francesi, Sangiovanni, Fulminacci, no, questo pare sia un ospite, ma vai un po’ a inventarti qualcosa su questi impiegati catastali del pentagramma, quando va bene. Come sensazione estrema, AmaCiuri annuncia le celebrazioni per i 70 anni di Romagna Mia e “trasformeremo l’Ariston in una balera”.

Capito a che sono ridotti? Raul Casadei, come nelle nostre perdute estati dei Sventies, quando il lissio scorreva fino a notte fonda, entrava nelle stanze d’albergo della Riviera coi suoi profumi di peccato casereccio e alla Locanda del Lupo di Miramare di Rimini, creazione dell’immaginifico Gianfranco Mulazzani, si sentiva da lontano il rumore del traffico impazzito e dello scandalo se arrivavano, conciati come lampadari fantastici, Renato Zero o Amanda Lear, artisti veri, trasgressioni vere, romantiche, epiche, oltre il fluido, niente a che spartire con questo patetico woke di cartapesta.

Max Del Papa, 27 gennaio 2024