Cultura, tv e spettacoli

Sanremo, una serata da abolire: è la fiera del massacro

Il quarto round del Festival non convince. L’inutile monologo della Francini

È un Festival acqua, per dire annacquato, aquitrinoso. Un Festival all’acqua, pazza, di rose (calpestate), stagnante, come quel sole acqua che c’è ma non splende, è velato, lattiginoso, non scalda, abbacina e basta. Ma possiamo, or che la liturgia già volge al termine, possiamo andare oltre i bagliori e vedere, e riferire, le cose per quelle che sono?

Prendiamo l’audience, questo miracolo dei pani e dei pesci alle nozze di Sanremo; mirabolanti, impensabili i sessanta, sessantatre su cento sintonizzati, ma se andiamo a vedere i numeri assoluti, la seconda serata l’hanno seguita in 9 milioni di media; ai tempi di Baglioni stavo in sala stampa e con un milione e passa in più ci scappava la tragedia. Qui erano attesi i 13 milioni fissi, fortuna che la pubblicità era già tutta venduta, ma il Festival acqua, “specchio del paese”, è un po’ la storia del partito egemone che prende sì il trenta, ma su un elettorato complessivo che arriva a stento alla metà degli aventi diritto.

E allora parliamo delle facce da protagonisti o comprimari: lo sanno tutti che le Giorgia, le Oxa non vendono un disco da tempi omerici e qui cercano rilanci che difficilmente troveranno; che gli Ultimo, come i Mengoni, hanno un disperato bisogno di vincere tutti e due perché il loro momento è passato; che le Elodie è storta perché punta al palco, senza discussioni e il sesto posto in classifica, inopinato, complica tutto perché, se pure la classifica è fittizia, l’immagine che ne deriva viceversa è reale; che i Colapesce e Dimartino, questi Vianella dell’indie pop, sono lì e un po’ se ne mortificano davanti al loro pubblico di hipster, ma con questo passaggio “tirano avanti un paio d’anni” e se il prezzo da pagare è duettare pateticamente con una cantante dilettante, moglie di un ex presidente guerrafondaio di destra, quintessenza del globalismo aristocratico, che problema c’è; che l’ex sacerdotessa dell’indie, la Levante, si è bruciata con X Factor e ha buttato alle ortiche dieci anni di militanza alternativa per votarsi a questa baggianata sessuale in stile nonna Ciccone; che i Cugini di Campagna, come altri, puntano alle sagre di paese; e si potrebbe continuare, coi casi clinici o semplicemente patetici, dietro i bagliori e le passerelle non ce n’è uno che se la giochi senza l’isteria del momento decisivo tra vivere e morire.

Questa sera è la quarta, una specie di sospensione, di divagazione, ma una sera che al Festival dovrebbero abolire perché in nessun modo si giustifica questa fiera del massacro di canzoni anche importanti, capaci di depositarsi sulle vite di tutti. È un karaokemmerd che non risparmia nessuno perché nessuno ha i fondamentali interpretativi, culturali, di sensibilità per il gioco delle cover che è un gioco pericolosissimo: devi uccidere e resuscitare una storia musicale, devi farne qualcosa di antico e di inedito. Ma se non hai la personalità di Joe Cocker o Renato Zero, meglio lasciar perdere: sono passate due, tre generazioni, il livello si è inabissato, la disgraziata Ariete che intona il Battiato di “cogliere ortiche” non si accorge di recitare un invito che molti, fatalmente, rivolgono a lei. Un pezzo importante ma minore come “5 giorni” è esemplare: affidato al fantasma Will diventa una sigla da programma per ragazzi e deve intervenire l’autore, Michele Zarrillo a ricordare, pur tra qualche acuto da colica renale, che trattasi di canzone di tutto rispetto. Poi ci son quelle come la nostra Rihanna del Quartaccio.

Ma seguitemi: adesso c’è un tale Olly che pare un po’ il pupazzo Uan, quello di Bonolis e infatti violenta, complice la Cuccarini in persona, “La notte vola”, rischiosa hit anni Ottanta la cui versione uncensored, che niuno può ignorare, ha contagiato gli studenti di tre generazioni almeno. Segnaliamo almeno anche il nostro Lazza (con Emma), che canta come si usa a Quarto Oggiaro. Qualcuno gliel’ha spiegato a questi che occorre un minimo di dizione, che non si canta così come si parla al quinto boccale di birra?

Il Festival acqua è crudele, il suo cinismo, nel quale Baudo fu insuperato maestro, non guarda in faccia nessuno: premia fuori tempo massimo un Peppino di Capri che ha il gusto dell’autoironia macabra: “Meglio tardi che mai”. Ma prima era troppo presto. Il Festival cerca ferocemente il colpo basso e ha bisogno come un drogato delle polemiche che sorgono dalle cosiddette provocazioni. Però con aria ammiccante: caro pubblico lasciali fare che non fanno sul serio, non fanno male a nessuno.

Tanto meno il Fedez, socio in affari della moglie e del J-Ax con cui si presenta stasera: pietà l’è morta, buon gusto pure. Mister Ferragnez, ecco un’altra cosa che non si deve dire ma la dicono tutti, come “artista” è finito, lo tien su Orietta Berti. Nel cinismo edificante mettiamoci pure i monologhi che sono quanto di più deprimente, di più finto e vuoto forse perché autobiografici di gente piena di vuoto ossia di se stessa. Ferragni parla di fatturati, Fagnani di fatti al gabbio, Egonu di padovani razzisti però viva l’Italia, stasera tocca alll’altra Chiara, Francini, di cui si ricorda più la militanza a sinistra che le prodezze artistiche. Difatti a modo suo non delude: gioca a far la svampita, la provinciale ma, per dirla con Marx, Groucho, non lasciatevi ingannare: lo è davvero. Nel suo “qua qua qua” si sospetta più volontà che rappresentazione, più autenticità che autoironia. Non che venga molto utilizzata: a un certo punto sparisce, chissà che le è successo, e il pipponcino d’ordinanza scivola scivola scivola nelle tenebre notturne a conferma che non frega niente a nessuno.

Queste coscienze cubiste dovrebbero mettere in crisi qualcuno? Lo dovrebbero i comici in odor di irrivenza che mostrano la panza flaccida o a 62 anni, come Fiorello “Ciuri”, urlano “sucaaa!”, “minchiaaa!”? Ma non la fai da padrone in Rai se disturbi davvero. Del resto guardale adesso le schegge impazzite del tempo che fu, i Grillo, i Benigni. Non ci cascano nemmeno i ragazzi da scuola dell’obbligo, oramai più scafati e più cinici o almeno imbevuti di propaganda neoglobalista al punto da non percepire più nessuna sensazione. Anche loro sanno, capiscono che dietro l’operazione Ferragnez c’è uno sconcio calcolo politico, che entrambi sono corteggiati da un Pd oltre la soglia dell’indecenza: una postcapitalista specializzata nel gioco delle tre carte social e un assemblatore di scemenze che provoca, si direbbe, per conto terzi, come una marionetta del teatrino. Il problema del Pd è di natura psichiatrica e Sanremo lo acuisce: ogni giorno trova un nuovo totem di consistenza infantile: prima Chiara, poi Fedez, poi la Egonu, più sono strampalati e più li prendono in considerazione. Dopodiché tutti frignano simulando umanità: “devo imparare a empatizzare con voi” ha detto la pallavolista Egonu, al suo climax pontificale.

Un’altra cosa che sanno tutti, che mormorano tutti, ma che nessuno verrà a raccontarvi è che l’esibizione ferragnesca è stata un fallimento mantenuto più che annunciato. Non ha “bucato”, è risultata gelida, scostante, supponente, autoreferenziale, come sempre orientata al guadagno “qui e ora”, che va benissimo ma il fatto è che non c’è altro, tutto il resto è strumento. Poi la comunicazione manipolata, controllata si prodiga a cantare di “scommesse vinte”, trionfi che neanche Leonida alle Termopili coi muri focesi e “Questa è Chiara!”. Ma la verità affiora dai milioni di meme spietati: Ferragni e Egonu sono state le più bersagliate del Festival, con fotomontaggi che andavano dal carogna fino al sadico, a conferma dell’insofferenza generale suscitata. E non è lecito cavarsela con la storia dei leoni da tastiera, perché è proprio per quei leoni che si accumulano fortune impensabili ai tempi del capitalismo delle cose. Sì, forse dovrebbero davvero imparare “ad empatizzare”. Ma come, se tutto quello che preme è lo specchio con annessi fatturati?

Poi la Madame anche lei con tettine disegnate ha un bel rispolverare lo stucchevole qualunquismo anticapitalista di De André la cui allegoria dei diamanti improduttivi a fronte del letame fecondo è una delle scemenze di maggiore immeritata fortuna di tutta la musica leggera. La nostra imprenditrice digitale, che sa generare clic milionari indifferentemente da fiori e diamanti, le riderebbe in faccia con uno di quei sorrisetti insopportabili.

L’unica vita spericolata, che ha scombussolato le gerarchie del servizio pubblico, è quella di Mattarella che a Sanremo ci va per canali come minimo irrituali e da qui intraprende la sua resilienza costituzionale, vale a dire opposizione a un governo di destra che solo adesso comincia a realizzare l’errore di averlo sostenuto per il secondo avvento al Colle. Poi possono sfinirsi a parlare delle presunte liti, delle smadonne che volano, delle canotte di Leo Gassmann ma è tutta “acqua pisciarella” si dice dalle mie parti quando esce fuori un caffé acqua, che sa di niente.

E va bene così, cantava il Gianni 60 anni fa. Siete voi degni del Festival dai mille veli e perbenismi, dove al massimo ti fanno calpestare le aiuole? Facciamo a capirci: Rosa il Chimico chi potrebbe mai turbare se arriva fuori tempo massimo su ogni trasgressione? E la trasgressione, non si finirà mai di ripeterlo, o ha un senso nel tempo in cui si afferma, o si rinnega mentre pretende di strillare: quello che vedete oggi, su questo palco, un Renato Zero l’aveva già immaginato e messo in scena, con tutt’altra violenza poetica, mezzo secolo fa. La differenza sta appunto nel tempo, lui incombeva in un’Italia ancora vaticanizzata, aveva tutti contro e, più che spalancarle, rompeva le porte che gli chiudevano in faccia; lo faceva con l’alta sartoria camp, con gli zatteroni che non erano fini a se stessi ma funzionali alla tensione artistica che andava di pari passo con quella esistenziale. Davvero lui era lui, era chi era, chi, nietzschianamente, era destinato ad essere. Questi non sono neanche epigoni, sono usurpatori. Senz’ombra di talento. Mi scrive tranchant un amico, professore di violino al Conservatorio: “Non valgono un cazzo perché non studiano un cazzo. Musica uguale talento più mazzo spietato e tertium non datur. Invece gli insegnano che escono da un talent e sono pronti”. Telegrafico ma efficace.

Per approfondire

Ora, l’arte è trasgressiva se arte e in quanto arte. Altrimenti è pantomima e le pantomime non disturbano come non disturba, al più irrita, il culetto proletario della Victoria che “si sente sexy”, e esagera con la solita smorfia della linguaggia bimbaminkia. E su! Ma il presentatore acqua, Ama, naso in resta può presentare questi piccoli sparafucile come il vanto italiano nel mondo. E sa benissimo che il mondo se mai li compatisce, ma il Festival acqua ha bisogno di agitare la sua pozzanghera pur che resti la solita palude. Anche la faccenda dei fluidi va vista per quella che è: in una fiera delle vanità in cui tutti, ma tutti sono “gender”, il gender non è più trasgressione e non è normalità: è conformismo, diventa piccola borghesia.

Così il Festival eternamente piccolo borghese si riempie di “messaggi”, di monologhi per rinunciare a qualsiasi ambizione autentica, sia essa di denuncia sociale o artistica, autoriale; il che significa fare a meno di qualsiasi contenuto. “In sostituzione”, come direbbe il professor Guidobaldo Maria Ricciardelli, vanno in scena i simulacri, le lacrime di Chiara, le lettere a se stessi, la narrazione di se stessi, le vite parallele di milionari bambini che non cresceranno mai. Diretti e consigliati, spesso malamente, da un esercito di consulenti in funzione censoria.

Siamo sinceri, da quanto tempo non si assiste a qualcosa di davvero spiazzante all’Ariston? Forse dal Vasco Rossi suonato di Vado al Massimo e Vita Spericolata. Disturante perché non faceva chissà cosa, si limitava ad essere se stesso, un drogato di talento, e questo sì che sconcertava, spiazzava la platea dei babbioni e dei notabili che drogati lo erano, come lo sono sempre, almeno quanto lui ma con la dovuta rispettabilità di facciata. Poi il cosiddetto Komandante sarebbe diventato altrettanto ipocrita, perfino perbenista, come sempre accade a chi fa i gran soldi. In ogni modo sempre meglio il Blasco che il Blanco. Intendiamoci: nessuno pretende che Sanremo sia Woodstock: basterebbe non propagandarlo per quello che non è stato mai, non è e non potrà mai essere. Non ci sono trionfi qui ma bagliori anemici, i migliori artisti non sono qui e non ci sono i migliori talenti dello spettacolo in senso lato: è un affare di scatole cinesi, arrivi all’ultima dentro non trovi il gatto di Schrödinger ma il vuoto.

Anche noi, a quanto si dice, saremmo dei teppisti limitandoci ad essere quelli che siamo, a fare il nostro mestiere. Che non consiste nelll’annoiare sbandierando le agendine rosse del populismo festivaliero, tracciando stralunati scenari di resistenze affidate ai Coma Cose e a Mara Sattei, resistenze, s’intende, alla destra usurpatrice del potere piddino che giustamente tien su i suoi megafoni parrocchiali. Ma non è nemmeno quello di chi applaude la Ferragni che a domanda, di un collega peraltro, non risponde e fa la faccia contorta di Greta. E va bene, “ci sta”, come si usa dire nello slang del neoglobalismo confidenziale per cui ci sta tutto, basta essere “pienamente operativi acca 24”. Ci sta pure di fare incazzare qualche provocatore mattutino come quello che mi scrive: “Non ti par vero eh, Del Papa, di accanirti sui Maneskin, rosica rosica che loro hanno fatto 87 dischi d’oro, non so se mi piego”. Per piegarti, piegati pure, solo sta’ attento che dietro non passi Rosa il Chimico.

Max Del Papa, 11 febbraio 2023

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