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Santori, le sardine sanno di pesce vecchio

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“Come nacque e come morì il movimento delle Sardine in Italia”. Si potrebbe intitolare così, parafrasando il titolo di un saggio dedicato a un altro e più serio capitolo di storia patria, uno dei fenomeni meno gloriosi della nostra recente storia politica. Perché una cosa è sicura: con la candidatura a Bologna nella lista del Pd (come indipendente: ultima ipocrisia) di Mattia Santori, il loro leader, il movimento delle Sardine può dire di aver definitivamente concluso la propria parabola. Che è stata quella di rappresentare, come supporto ad una sinistra storica e istituzionale stanca e a corto di idee, una sorta di appendice ad alta intensità di populismo “buono” e “giovanilistico”. Pronta ad infervorarsi a comando per battaglie come lo ius soli e la legge Zan che certo non stanno come priorità nel cuore degli italiani e, a ben vedere, nemmeno dei beneficiati. Una protesi usa e getta che svolgesse il ruolo che fu in altri tempi degli “utili idioti” di togliattiana memoria.

Che del populismo il sardinismo rappresentasse, seppur non in modo dichiarato, una sorta di epifenomeno, lo si intuiva dalla crassa e ostentata ignoranza dei suoi leader, dalle poche e confuse idee che definire programmatiche sarebbe a dir poco esagerato. E dalla individuazione di un Nemico Unico che, guarda caso, era proprio quel Matteo Salvini, che, nel mefistofelico ruolo di Male Assoluto Metafisico, ha da tempo sostituito a sinistra il Cavalier Berlusconi. Salvini che, guarda caso, era lo stesso nemico del partito che fu di Zingaretti ed ora è di Letta, e che per entrambi, Partito e Sardine, rappresentava, in mancanza di ragioni serie e argomentate, l’incarnazione simbolica del “fascismo” “eterno” (l‘Ur-fascism) di italica tradizione.

Che poi Santori definisse il partito in questione “tossico”, salvo poi essere ricevuto, dopo un sit-in romano con tanto di assembramento e sacchi a pelo, dai suoi dirigenti che ne apprezzavano “qualità” non meglio definite, faceva parte del gioco. Come del gioco faceva parte strumentalizzare gli stessi per dare un alone di popolarità giovanilistica (finta e costruita) a quella che era invece una battaglia meramente di potere per conquistare o mantenere i posti di governo e sottogoverno che, tramontati gli ideali di un tempo, sono oggi l’unica ragion d’essere, o quasi, della “ditta”. Strumentalizzazione per modo di dire, in verità, perché lo scambio era evidente: un posto di potere per Santori e gli altri, una volta finita l’avventura. E così è stato.

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