Se esistesse una dimostrazione geopolitica del detto “cadere dalla padella alla brace”, il caos siriano calzerebbe a pennello. Ieri Damasco è caduta, Bashar al Assad è fuggito in Russia dove ha ricevuto asilo politico, i ribelli jihadisti del movimento Tahrir al-Sham (Hts) guidati da Abu Mohammad al-Jolani hanno preso la città e il territorio siriano è scivolato nell’incertezza. È successo tutto così in fretta che forse neppure i grandi attori mediorientali, Usa, Russia, Turchia, Iran e Israele, erano preparati allo scioglimento come il burro del vecchio regime. Tutti gli altri, Europa in testa, non sanno come reagire: sono felici per la fine del dittatore, ma ricordano con orrore la lezione della Libia e quindi se la stanno facendo sotto.
Il terrorista alla guida della Siria
Lo si capisce dalle dichiarazioni rilasciate ieri dai pochi leader che hanno deciso di parlare a poche ore dall’ingresso trionfale di Mohammad al-Jolani nella grande moschea degli Omayyadi. Da giorni gli Stati Uniti “monitorano” la situazione non senza apprensioni. Certo: dopo la guerra all’Isis, gli Usa mantengono “contatti” con tutti i gruppi siriani ma cosa vogliano fare ora i ribelli resta un grande punto di domanda. Jolani sta presentando il volto moderato, ha lasciato alla guida del governo lo stesso premier che c’era prima e al momento non si registrano grandi violenze. Ma sulla sua testa pende una taglia da 10 milioni di dollari imposta proprio dal governo americano: il 16 maggio 2013, il Dipartimento di Stato lo aveva indicato come “terrorista globale” e aveva bloccato tutte le sue proprietà e i suoi interessi nei territori controllati dagli Usa. Il paradosso è che agli americani è vietato impegnarsi in qualsiasi transazione con al-Jolani, ma ora la Casa Bianca sarà probabilmente costretta a trattare con lui.
L’allarme negli Usa
Non è un caso dunque se dal discorso di ieri sera di Joe Biden trapela tutta l’apprensione per un futuro decisamente incerto. Il presidente uscente ha esultato per la fine del regime di Assad, ha esaltato “l’opportunità storica per il popolo siriano” ma ha anche riconosciuto che si tratta di un momento di “grande incertezza”. E in Medio Oriente spesso l’incertezza fa rima con il caos. Le basi Usa sono pronte ad attivarsi qualora i ribelli dovessero minacciare gli alleati nella regione, vedi Israele o Giordania: solo ieri sono stati realizzati decine di attacchi aerei contro 75 obiettivi in Siria per evitare che lo Stato Islamico approfitti della situazione e tenti di ricostituirsi. Non che i vincitori siano meglio: i miliziani dell’Isis non vedono di buon grado quelli dell’Hts, considerandoli traditori e troppo moderati, eppure Biden e Washington sono “consapevoli delle radici terroristiche dei ribelli” (il gruppo nasce da una costola di Al Qaeda) che “al momento stanno dicendo le cose giuste” ma non è detto che riescano a frenare a lungo gli ardori jihadisti.
“Una vittoria islamica”
Lo ha fatto capire lo stesso Jolani nel suo discorso alla grande moschea. Quella di ieri, ha detto, è stata una “vittoria della grande nazione islamica” che segnerà una svolta non solo per la Siria ma per “l’intera regione” che “viene purificata dalla grazia di Dio Onnipotente e attraverso gli sforzi degli eroici Mujahideen”. Non proprio le frasi che gli occidentali si sognavano di ascoltare, senza contare che l’apertura delle carceri di Damasco, Homs ed Aleppo hanno liberato numerosi jihadisti pronti ad unirsi alla causa islamica. Sia essa dell’Hts o dell’Isis.
Sconfitti e vincitori
Di certo l’avanzata dei ribelli ha diviso gli attori mediorientali in vinti e vincitori. Possono sfregarsi le mani, senza dubbio, la Turchia di Erdogan e l’Ucraina di Zelensky ma per motivazioni decisamente diverse. Il sultano è sempre stato un sostenitore esplicito dei ribelli, unico nella Nato, e la caduta di Assad gli permetterà di mettere le mani sulla Siria, di rispedire in patria quasi 3 milioni di profughi e di affrontare la grana dei curdi che controllano un pezzo di territorio siriano. L’unico vero rischio per Ankara è la rinascita dello Stato Islamico, e non è detto che Jolani si lascerà influenzare dai diktat turchi.
Kiev dal canto suo incassa la “sconfitta” della Russia di Putin, da sempre grande alleato del regime di Assad e ora in grande apprensione per le basi aeree presenti sul territorio. Mosca ha fatto sapere che i ribelli hanno fornito “garanzie” sulle zone militari in mano al Cremlino, ma in certi contesti spesso le parole valgono poco. Contano i fatti. E per ora i fatti restano un grande mistero.
Un punto di domanda che riguarda anche Israele. Certo: ieri Benjamin Netanyahu ha salutato con gioia la fuga di Assad e ha rivendicato la fine dell'”asse del male” come una diretta conseguenza delle guerre (Libano, Iran, Gaza) che Tel Aviv sta combattendo contro Hezbollah, Hamas e contro gli Ayatollah “principali sostenitori del regime di Assad”. Piccolo problema: “Questo crea nuove opportunità per Israele ma non prive di rischi”. La convivenza con gli Assad, dopo la guerra dello Yom Kippur, era malvista ma considerata necessaria. L’arrivo degli iraniani dopo la prima rivolta del ribelli ha complicato lo scacchiere, e spesso in questi anni Tel Aviv ha bombardato obiettivi in Siria, ma l’ignoto spaventa forse più del conosciuto. La nascita di una “grande nazione islamica” ai suoi confini sarebbe ovviamente un incubo, tanto che le truppe israeliane hanno subito occupato la zona cuscinetto sul Golan considerando “venuto meno” il patto siglato nel 1974. L’Idf ha preso il controllo della base militare sul versante siriano del monte Hermon: “Si tratta di una posizione difensiva temporanea – ha fatto sapere Netanyahu – fino a quando non si troverà un accordo adeguato”.
I timori dell’Europa
E l’Europa? Boccheggia, non sa bene da che parte stare e in certi casi dimostra un entusiasmo ingiustificato. Ursula von der Leyen gioisce alla caduta della “crudele dittatura”, parla di “cambiamento storico” ma mette in guardia sui “rischi”. Lo stesso fa Roberta Metsola, presidente dell’Europarlamento, convinta che “ciò che accadrà nelle prossime ore e nei prossimi giorni è importante”, il che vuol dire tutto e niente. La speranza è che si apra un “futuro libero, stabile e sicuro” ma la verità è che nessuno, al momento, può garantirlo. Men che meno l’Ue può assicurare “il rispetto dei diritti fondamentali e del diritto internazionale”. Per questo sono incomprensibili le parole del neo Alto Rappresentante Ue per la Politica estera, Kaja Kallas, convinta che la vittoria dei ribelli sia uno “sviluppo positivo e atteso da tempo”.
Il ricordo della morte di Gheddafi è ancora fresco. Nel 2011 i leader europei esultarono per la morte del dittatore libico ed erano convinti che le “primavere arabe” avrebbero portato democrazia e prosperità. Ma era una falsa speranza: ricordate il commando jihadista che pochi mesi dopo trucidò l’ambasciatore Usa a Bengasi? E la guerra civile? La realtà alla fine ha battuto la fantasia e ancora oggi, quasi 15 anni dopo, la Libia resta una grande polveriera dove prosperano terrorismo, caos e soprattutto trafficanti di uomini. La Germania sa bene cosa vuol dire l’instabilità in Siria, visto che dieci anni fa si è ritrovata a dover accogliere milioni di profughi con tutte le conseguenze del caso (vedi crescita dell’Afd). C’è chi oggi ipotizza che i nuovi sviluppi siriani possano produrre altri 1,5 milioni di migranti.
Anche la Gran Bretagna, di solito poco incline ai compromessi, si dimostra attendista. Il britannico Keir Starmer accoglie “con favore” l’addio di Assad e spera in pace e stabilità per la Siria, ma non può garantire che avvenga: “La nostra attenzione è ora rivolta a garantire il prevalere di una soluzione politica e il ripristino della pace e della stabilità”. Ma la verità è che il grande timore di tutti è di essere caduti dalla padella, brutta ma conosciuta, alla brace. Che resta una grande incognita. Islamista.