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Spari a Termini, io sto col poliziotto indagato

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Certo, la Procura di Roma parla di “atto dovuto”. Certo, un’indagine per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi” può tutelare lo stesso agente della Polfer, che sabato, davanti alla stazione Termini, ha sparato all’inguine a un esagitato ghanese di 44 anni che brandiva un coltello. Certo, una verità giudiziaria può scagionare definitivamente quel ragazzo lucido e coraggioso dalle infamie che già circolano sul suo conto.

Ma, come denuncia il sindacato di polizia, in questo Paese si arriva sempre a situazioni paradossali e grottesche: mentre l’immigrato pregiudicato, in quanto nullatenente, avrà diritto alle spese legali del procedimento pagate interamente dallo Stato (cioè, da noi contribuenti, che teoricamente eravamo un potenziale bersaglio di quel delinquente), il poliziotto dovrà eventualmente provvedere da solo. Speriamo che questa storia sia presto archiviata e che, al posto di un’indagine, all’agente sia riconosciuta semmai un’onorificenza. E speriamo che la coscienza di qualche politico di svegli e che ci si decida a intervenire per sottrarre a questo inaccettabile degrado le stazioni d’Italia.

Ciò detto, resta ancora un paio di note d’amarezza. Ad esempio, il modo in cui Repubblica ha presentato oggi la vicenda del fascicolo aperto dalla Procura della Capitale. “A guardare la sequenza delle immagini”, scrive il quotidiano diretto da Maurizio Molinari, “non sembra che l’uomo avesse minacciato gli agenti”. Non sembra? E cosa deve fare una persona per “minacciare” un agente, più che inveirgli contro, coltello alla mano? Tra l’altro, chiunque abbia la benché minima nozione di come funziona uno scontro in un teatro urbano, sa che, anche a distanze fino a 7 metri, chi possiede un’arma bianca e ha intenzione di aggredire chi ha un’arma da fuoco, gode di un certo vantaggio strategico nel colpire per primo l’avversario. La prontezza, l’immediatezza della reazione, insomma, è fondamentale.

E poi, il surreale intervento richiesto all’”istruttore militare”, il quale sostiene che, al posto dell’agente stesso, non avrebbe fatto fuoco. Tutto pensato appositamente per tentare di aggravare la posizione di quel poliziotto, che con ogni probabilità le toghe scagioneranno presto e a ragion veduta. Perché il nostro Paese non riesce a compattarsi almeno sulla difesa delle sue divise, sfruttate in questi mesi per controllare chi portava la mascherina o organizzava il Covid party, ma che nella realtà hanno a che fare tutti i giorni con criminali della peggior specie? Perché, anziché spalare fango addosso a questi lavoratori, non facciamo un monumento a chi rischia la pelle per il nostro bene e porta a casa uno stipendio tanto modesto?

Nicola Porro, 22 giugno 2021

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