Società

Amadeus, che palpata: quella mano birichina del sacerdote del Festival

Dalla Rete rispunta un video del Festivalbar con Alessia Marcuzzi. Siparietto o gaffe? Poco importa: lo preferivamo così

amadeus alessia marcuzzi

Proprio vero che si nasce Barone Patanè e si muore Gino Cecchettin. Il Barone Patanè, Lino Banfi, quello della moglie in bianco l’amante al pepe, quello col figlio effemminato, Gianluca, che i paesani carogne chiamavano “Gianculino”, quello tutto “inchiappettamendi” e paccate su ogni culo femminile a tiro. Poi si cresce, si diventa potenti, sempre più potenti, si eredita Sanremo, ci si permette pure il lusso di snobbarlo, cioè di giocare al rialzo, all’insegna di quello slogan immortale, “perché io valgo”, valgo in soldi, e allora si rientra nei ranghi del politicamente corretto, si fanno i Festival inclusivi, pentecostali, ci si converte al woke strategico.

Ma guardatelo lì, l’Amadeus detto Ama anni Novanta, guardatelo con la sua chioma fonata, da discoteca iberica e lo sguardo grifagno, guardatelo come non resiste davanti al notevole fondoschiena di Alessia Marcuzzi e gli parte l’embolo, l’ormone e la manina: lei lo guarda a metà fra lusingata e stravolta, ma più lusingata, ah che bel siparietto. C’è tanto di filmatino, tornato al galla dagli abissi della Rete. Una simpatia! “Mi sono divertito, lo potremmo rifare”, chiosa l’Ama eroticus ingrifatus. Davanti a qualche migliaio di persone. No, ma è perché lui in discoteca la Macarena l’aveva vista ballare così.

E va beh, siamo uomini di mondo, abbiamo fatto il Servizio Civile a Capodarco. Oggi l’Ama istituzionale, sacerdotale, forse si vergogna un po’ dello scapestrato ragazzo (non si vergogna affatto, questi la vergogna non la tengono, ma mi serve l’artifizio retorico per continuare nel pezzo), ma sapete una cosa? Noi quasi quasi lo preferivamo prima. Versione Barone Patané. Anzi, senza quasi. “Bella! Bella! Che chiappe! Che tettole!”. Il deretano cui porgevi, la pargoletta mano, è ormai così lontano, rifarlo non si può. Però, che scatto: fulmineo, lieve, una palpata impalpabile, non la Mano de Dios ma la Mano de Ama. Vai, Amedeo, che eri tutti noi. Eri, ieri.

Immaginatevi oggi: verrebbe giù il cielo, il governo, l’Occidente, ma tanto non c’è pericolo perché nessun uomo maschio ci pensa neanche più ad un gesto del genere. È un bene? È un male? Comunque è il segno dei tempi, anodini, svilirizzati, centrifugati. Nessuno esalta o difende la pacca volante sul culo, se mai quello che si rimpiange, almeno da chi ancora si ostina a difendere un barlume di umanità e di logica, è la capacità di sdrammatizzare, di passare oltre: una battuta, un sorriso fra il lusingato e lo stravolto e su, dai, via, lo spettacolo deve continuare. E continua. Magari, chi lo sa, dopo la puntata (del Festivalbar, per la precisione), Alessia avrà pesantemente cazziato l’Amadeus furiosus in camerino. O forse no, si saranno fatti una risata e morta lì.

Oggi invece per un gesto magari stupido, come lo è la natura, come lo è l’umanità, si imbastiscono processi mediatici, che sortiscono processi penali, che sortiscono calendari, libri, tournée della proprietaria di culetto violato, smanacciato, umiliato e offeso. E, spesso, la proprietaria è una aspirante giornalista in veste, o sottoveste, di influencer. Sì, va bene, nessuno deve permettersi, nessuno si sogni, però fino a ieri bastava il compatimento, quella sorta di riprovazione quasi divertita, ma non meno severa in fondo, a rimettere a posto l’incauto: adesso l’incauto per un tic, una palpata, si becca sei anni di carcere, roba che ai “giovani ragazzi” d’importazione che stuprano allegramente per la strada viene risparmiata, oltre alla damnatio memoriae, la perdita del lavoro, dell’attività, della famiglia, di se stesso.

 

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C’è qualcosa che non torna, una sproporzione moralistica feroce nel modo in cui regoliamo oggi le nostre paturnie culturali e moralistiche. E non torna perché è innaturale, è disumano. La pacca sul ragguardevole culo è becera, fin che si vuole: la distruzione totale, ossessiva, spietata del reprobo è sproporzionata, delirante, e, una volta approdata in un’aula di giustizia, mostruosa. Noi, vecchi mascalzoni libertari, uomini del Novecento, nostalgici del peggio, ci ostiniamo a preferire l’Amadeus zazzeruto e impertinente al prevosto sotto sale; il Barone Patané del Festivalbar al Cecchettin del Festival; e in quel gesto, stupidotto ma in fondo ingenuo, ritroviamo l’innocenza di un’età che non può tornare e non è solo la nostra, è l’età sociale che sembrava immatura ma era più adulta di questa: nella sua capacità di sdrammatizzare, di tornare alle giuste proporzioni del reale, di concedersi una sciocchezza senza conseguenze, di ricordarsi, insomma, di essere uomini e donne. Non automi del politicamente corretto. Non algoritmi del woke. Vestali e gendarmi di una morale da lager che mille facce senza volto hanno imposto e, in nome dell’istinto, castrano ogni pulsione, e in nome della tutela obbligano a non avere più un sesso per contenerli tutti, in nome dell’amore organizzano l’odio, in nome della tolleranza paralizzano, lobotomizzano, mettono il filo spinato al cervello.

Amadeus, detto Ama, non è neppure un ipocrita, è un figlio del suo tempo, ieri come oggi. Ma noi preferiamo quello di ieri, così come preferivamo quelli che usavamo essere, e non potremo più essere. Mai più.

Max Del Papa, 19 marzo 2024

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