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50 sfumature di gender: sì ad un confronto vero, no al narcisismo vittimista e all’aggressione isterica

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Prima piangono perché non si sentono quello che sono. Poi piangono perché, essendosi corretti con la chimica e la chirurgia, non si sentono quello che sono. Piangono comunque, come Bertoldo col meteo. E la società li mantiene, li vizia, li coccola come principini del dubbio esistenziale. Diventano adulti e, invece di crescere, continuano a piangersi addosso in un trionfo di narcisismo vittimista, quanto a dire la fuga da ogni responsabilità: esisto solo io, coi miei drammi egoriferiti, le mie chiacchiere, le mie lacrime, esisto solo io, lasciatemi stare, non caricatemi, invece datemi, datemi, datemi ascolto, datemi quello che chiedo anche se non so cosa voglio.

Sulla piattaforma Tinder 29 sfumature di gender, che francamente sembrano troppe anche per un missionario dell’incertezza. Ma chi ci sta si definisce così: “Se ci fosse una linea sottile a collegare i due sessi, sarei un punto che fluttua da qualche parte fra gli estremi, ma non per forza legata ad essa. È l’unico modo in cui posso descrivere come mi sento”. Difficile riuscire più vaghi, più favolistici. Ma bisogna prendere tutto sul serio e non fare domande, in America chi ci prova è fuori, come quel professore della Duke University che ha osato ironizzare sulla polimorfia sessuale che prevede le seguenti distinzioni: androgino, non binario, fluid, omosessuale, bisessuale, pansessuale, asessuale, incerto. Sembrano i gusti del gelato, lo sono dell’umanità. E se non ti orienti in questa Babele di generi e sottogeneri che prevedono regole inattuabili per la società, sei finito.

E lo sono, inattuabili. Perché se passa il principio che uno è come si sente, con licenza domani di sentirsi il contrario di oggi, e sempre di piangersi addosso e di rimpiangersi, come fa una società a provvedere ai diritti reali, ai bisogno reali? Se usciamo dalla dimensione sessuale o, come precisa Luxuria, erotica e pretendiamo di sentirci ora Picasso, ora capo dello Stato, ci spetta una quotazione per una crosta o un vitalizio presidenziale? I diversamente tolleranti a questo punto perdono le staffe: non provocare, non dire scemenze. Ma se sono scemenze, lo sono ab ovo, discendono da un vizio logico e non c’è barba di legge che tenga. Solo che farlo notare serve come quando si dice ai matti che non possono volare.

In Messico in 18 maschi si candidano nelle quote rosa e i giudici li accontentano, in Canada detenuti maschi che si sentono femmine ottengono il trasferimento in un carcere femminile dove violentano le detenute, a Tokyo un sollevatore di pesi che si percepisce “rosa” vince la gara femminile. C’è da chiedere come fa una società, qualsiasi società, a funzionare in un marasma simile? Quando trovi deciso da pulpiti improbabili, immaturi, che i veicoli col cambio manuale “sono indice di mascolinità tossica”, come fai a ragionare, a discutere? Siamo alla società dell’incertezza, non sapere chi si è, cioè cosa si vuole e come si può contribuire al cammino, stentato ed esaltante, dell’umanità, è considerato virtuoso, se uno si percepisce definitivamente per quello che è cade in disgrazia come mostro. Nel segno dell’inclusione, del diritto egualitario ci si occupa e preoccupa solo di sé, delle proprie confuse pulsioni.

Ma se le percezioni possono essere fluide, le prescrizioni di una minoranza organizzata no e ribaltano il modo in cui una collettività si è sempre rispecchiata: oggi, e sia inteso in modo del tutto analitico, essere sessualmente possibili è vincente, la strega omosessuale o lesbica non c’è più e se c’è è come testimonial, icona di riferimento per un mondo riscritto di consumi e di affari così come di modi di essere e di vivere. Essere indefiniti è una moda e a certi livelli un impulso pavloviamo. Ma diciamo pure che il mondo non smette di girare e il saggio è tenuto ad adeguarsi, diciamo che disperarsi o arroccarsi serve a niente ed è in buona misura sbagliato; diciamo che confrontarsi con nuove dimensioni e perfino nuovi stilemi è doveroso e salutare: dall’America arrivano serie tv, ottime, dove tutte le presunte minoranze, ormai ex minoranze, sono meticolosamente rappresentate sia in senso razziale che sessuale: famiglie omosessuali felici con figli a carico; e chi può escludere che due persone con la testa sulle spalle non siano genitori di gran lunga migliori di un padre e una madre regolari, tradizionali, ma proiettati nell’inganno e nell’odio reciproco?

Però ci sia anche consentito un confronto vero, non una sistematica aggressione isterica; ci sia permesso non gradire la pratica dell’utero Postal Market, ci sia lecito osservare che, per dire, in Italia la pratica delle adozioni è ancora escludente, limitata allo schema familiare tradizionale per soggetti facoltosi, in grado di sostenere i vari snodi istituzionali per i quali passa un iter interminabile; adottare non sarebbe forse meglio che comperare un feto, un utero? Ci sia anche lasciata la possibilità di alzare il sopracciglio verso un ventaglio di identità del tutto immaginario e funzionale solo alla percezione egocentrica di sé. Forse sono proprio questi incerti a vita a covare un problema di definizione: a forza di percepire malamente tutti gli altri, di considerare tutti nemici a prescindere, non percepiscono loro stessi per quelli che sono. Prepotenti. Intolleranti. Violenti, della violenza dei deboli, dei capricciosi.

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