Economia

E se Stellantis non avesse tutti i torti? La deindustrializzazione avanza

Il problema non sono gli Agnelli o gli Elkann, chi scappa dall’Italia, chi chiude, chi delocalizza. Bisogna creare le condizioni per attrarre investimenti

John Elkann Marocco Stellantis

Stellantis ha scelto di spostare la sede legale in Olanda e quella fiscale in Gran Bretagna, di fatto non è più un’azienda italiana”. Partiamo da questo assunto e spiegheremo perché non è del tutto corretto.

Per chiarire alcuni punti di questa vicenda industriale che vede John Elkann al centro di un vespaio di polemiche, cerchiamo di capire perché, forse, l’erede di casa Agnelli non ha poi tutti i torti a chiedere ancora sostegno per gli impianti produttivi di Stellantis che sono in Italia e producono in Italia e impiegano lavoratori, e quindi retribuiscono famiglie, in Italia.

Il prestito

Sace, la finanziaria di Stato – sì, lo Stato italiano ha ancora una finanziaria pubblica – ha erogato a quella che all’epoca era FCA sotto l’egida del governo Conte 2, nel 2020, un prestito, garantito dalla finanziaria suddetta, della durata di tre anni erogato da Intesa San Paolo con un sistema che avrebbe dovuto garantire pagamenti celeri a dipendenti e fornitori della filiera dell’automotive, un indotto da circa 10.000 imprese italiane.

Però attenzione, ribadiamo bene che quello che viene detto, anche da personaggi illustri quale l’ex ministro Carlo Calenda, non è preciso, non glieli abbiamo “dati” quei soldi, glieli abbiamo prestati, non glieli abbiamo regalati, gli abbiamo aperto una linea di credito, che significa un prestito. E i prestiti vanno rimborsati, come il mutuo di casa o le rate dell’auto, per rimanere in tema. Quindi, non solo FCA ha pagato per avere quei sussidi ma trasformata Stellantis ha anche già rimborsato il prestito, persino con un anno di anticipo, peccato che non lo dica nessuno e non lo si legga né lo si ricordi da nessuna parte.

Trattavasi di agevolazione di “cortesia interessata”, visto che la motivazione era quella di sostenere la filiera dell’auto in Italia, settore che, negli ultimi cinque anni, ha ricevuto bonus e sovvenzioni per circa tre miliardi e mezzo di euro (forse era meglio impegnarsi in una partecipazione azionaria statale vista l’entità del prestito).

La società

Quello che si sente dire in giro, quello che dice la gente, comprendendo anche l’ex ministro suddetto, è che gli Agnelli con quella garanzia pubblica di 6,3 miliardi “sono andati a pagarsi i dividendi degli azionisti in Olanda per 3,9 miliardi”, ricchi premi e cotillon coi soldi dei cittadini italiani. Ma, vedete, il 71,6 per cento di Stellantis è nelle mani del mercato, solo il 14,9 percento è l’azionariato della famiglia Agnelli. Dentro poi c’è Peugeot al 7,1 per cento e lo Stato francese al 6,4 per cento.

Ora, non per voler fare sempre l’avvocato del diavolo, ma Stellantis N.V. è una holding italo-francese di diritto olandese che produce autoveicoli in stabilimenti di proprietà o in joint venture in tutto il mondo. Far passare il messaggio che non paghi le tasse in Italia è scorretto materialmente e contestualmente, però alla gente piace poterlo dire. Peccato che lo dicano anche alla Camera dei Deputati e in altri contesti mediatici dove pensano che siamo tutti ignoranti e manipolabili con due frasette di circostanza.

Il gruppo è nato dalla fusione, nel 2021, tra i due colossi automobilistici Fiat Chrysler Automobiles, la nostra FCA a cui è stato concesso il prestito di Stato, e PSA. Pochi giorni dopo, la nuova società si è quotata alla Borsa di Milano, perciò i denari finanziari e non che girano intorno a questa società sono nel portafoglio anche di imprese e privati italianissimi. Che è interesse del governo italiano tutelare.

Stellantis poi, ovviamente, è quotata anche Parigi e a New York, quindi idem come sopra. La sua capitalizzazione è di circa 47 miliardi di euro, il valore complessivo sul mercato di Stellantis è di circa 65 miliardi. Eppure, sempre alla gente, piace dire che è grazie ai soldi prestati dallo Stato Italiano, meno del 10 per cento del valore complessivo, che John tira avanti la carretta. E di tutta evidenza non è così.

Industria finita

È di tutta evidenza invece, a chi non apre bocca tanto per dargli fiato davanti a un microfono, che questo “capitalista irresponsabile” e il suo “esoso tirapiedi” (o almeno così piace dipingerlo ai giornali) l’amministratore delegato Carlos Tavares, per poter tutelare i lavoratori degli stabilimenti ex Fiat che producono in Italia – e che potrebbero tranquillamente spostare altrove perché in una economia di mercato è consentito – hanno bisogno di un supporto governativo costante.

Perché qui, signori, è la baracca-Italia che fa acqua da tutte le parti, a maggior ragione se devi tenere aperte le fabbriche di automobili con uno svantaggio competitivo rispetto ai costruttori cinesi, nel settore elettrico ad esempio, del 30 per cento (minimo, senza contare il costo del lavoro ma solo quello di produzione meccanica).

L’industria italiana non esiste più, anche quel poco rimasto è straniero ed è stato tolto agli italiani, penso alla triste vicenda Ilva di Taranto-Arcelor Mittal. Per tirarsi su l’industria italiana ha bisogno di incentivi fiscali, economici, non di ministri come Adolfo Urso che, indubbiamente proattivi e in buona fede, minaccino una non meglio precisata restituzione, persino retroattiva, dei sussidi da parte di chi lascia l’Italia. Qualcuno gli dica che hanno già rimborsato e con quei soldi ci hanno pagato imprese italiane che altrimenti oggi probabilmente sarebbero andate a gambe all’aria.

Creare le condizioni

Sarebbe un grave scandalo se i vari gruppi finanziari e industriali facenti capo alla famiglia Agnelli decidessero di dismettere e produrre altrove? Di chiudere come hanno già fatto con lo stabilimento Magneti Marelli? Le Maserati l’anno scorso hanno avuto un crollo di produzione del 49 per cento, forse perché in Italia sono rimasti in pochi a potersela comprare? Viene da chiederselo.

Gli affari sono affari, per produrre ricchezza privata o nazionale, attrarre investimenti, bisogna creare le condizioni, economiche, produttive, fiscali, finanche psicologiche. La ricetta non può consistere in continui piani di resilienza con i soldi europei, sussidi e bonus.

Il campanilismo tricolore è onorevole, la tradizione, la storia della famiglia legata all’Italia, tutto bello, e infatti John Elkann, che è galantuomo, ha confermato anche al presidente Sergio Mattarella l’impegno in Italia. Ma il problema non sono gli Agnelli o gli Elkann, chi lascia l’Italia, chi chiude, chi delocalizza, industriale o privato cittadino, né chi chiede sussidi costanti, forse fa bene, bisognerebbe dirlo al ministro Urso, e, a sua parziale discolpa politica, agli almeno venti ministri – e governi – prima di lui.

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