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Buck Carran, l’americano di Bergamo che ha composto la colonna sonora del lockdown

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Due sono le soluzioni. O ti arrendi o combatti. Due sono le vie d’uscita da una allucinazione. O ci stai dentro, ti ci sdrai come un feto, un grosso fuco, e muori. Oppure spremi quello che puoi, il dolore che sai, la paura che ti mangia, e la risputi i in qualcosa. Qualcosa di bello, qualcosa che spiega qualcosa. Buck Curran è un cantautore di lungo corso, un folkman americano sposato in Italia: a 53 anni suonati s’è trovato a Bergamo, epicentro di una tragedia imprevedibile, senza più lavoro, senza concerti, senza risorse insieme alla moglie Adele, insegnante senza più studenti ma con un figlio piccolo da accudire e un altro in formazione: fuori la gente moriva di non si sapeva cosa, e gli ospedali non sapevano chi salvare, e i furgoni neri coi cadaveri sfilavano per fosse comuni che nessuno merita. Qui, o ti sdrai nella morte e l’aspetti, o ti divincoli e fai quel che devi.

Un artista deve suonare. È questo quello che fa. Buck è un menestrello e dalla morte avvolgente ha cavato nuove parole e melodie e immagini sensibili. Da solo, registrando come poteva, ha accumulato canzoni per un lungo disco, “No Love Is Sorrow”, concetto che potrebbe anche ribaltarsi: se nessun amore è dolore, ogni amore invece può esserlo, o forse nessun dolore è amore: fate come vi pare, quello che resta è questa colonna sonora del Covid-19; della pandemia, dell’isolamento, dello sgomento.

È sempre difficile definire un’opera, ed è difficile raccontarla: folk scarnificato? Post folk? Gotico psichedelico? Lasciamo perdere, basti dire che le 16 tracce di “No Love Is Sorrow” dilatano i sentimenti, come guardando fuori dalla finestra, verso un mondo irraggiungibile e minaccioso; di colpo, al di là dal vetro non c’è che assenza, miraggio; non c’è che veleno e la notte le lenzuola nere di orrore si stendono, coprono la luna, si agitano fin dentro l’anima o forse nel ventre di tua moglie che sta creando nuova vita. Adele canta con Buck. Cantano l’abbandono, l’assoluto nulla di un vivere che non è più. L’album è tutto suoni di chitarra desolata, echi stirati, vibrazioni nel vento malato, pare lo scenario impressionista di un deserto, di una desolazione infuocata, invece è Bergamo, Italia, nel suo inverno impestato. Ogni tanto c’è un piano come un pianto, come dirottato, c’è un raga e lo scarnificato sconforto si alterna a spunti melodici di esausta volontà. Poche parole, non ne servon di più, sono i suoni a dir tutto: a dire quel che non si può dire, “No Love Is Sorrow” non è un disco che pensa, è un disco che sente e l’isolamento della morte è qualcosa che cancella i pensieri, lo puoi solo percepire, nelle ossa e nel sangue. Nella mente che vacilla.

Così, mentre i canterini nostrani s’affannavano a mettersi in mostra con i soliti messaggi moralistici, a mendicare provvidenze di stato (tutti, pure quelli con villa piscinata a Los Angeles), a incidere robetta che aggiunge insulto a miseria (lo Stato Sociale di Lodo Guenzi, il fratello di latte del Sardina Mattia), un americano a Bergamo componeva la colonna sonora del lockdown. Certo non diventerà ricco con questo, non risolverà i problemi di una famiglia che cresce nel pieno di una falcidie. Ma un artista, se è artista, compone quello che vive nel momento, lo riveste dei suoni giusti, lo lascia a memoria: è qualcosa che devi fare e non c’è testimonianza più urgente, più sincera di questo lungo dolente umile disco intriso di sincerità per capire, quando tutto sarà ricordo offuscato, cosa è stato vivere nel tempo senza tempo che mangiava la vita. Quando guardavamo in alto, a una luna più lontana e lei non rispondeva e non passava una macchina, un ladro o un cane. Tutto quel silenzio, così infettato, così cattivo. Così eterno. Soffocavamo e peggio di tutto era non sapere quanta apnea potevamo permetterci ancora. E ci sarebbe servita una straziata sinfonia per ascoltarci meglio nel nostro abisso di sconcerto. Ce l’abbiamo adesso.

Tutti dovrebbero conoscere questo piccolo prezioso disco, “No Love Is Sorrow”, che parla di noi, capaci di sopportare l’indicibile e ancora di volerne uscire. Nessun amore è dolore, ma è dal dolore che esce l’amore. Questo voleva dirci Buck Corran suonando una Bergamo desertica, americana; questo abbiamo imparato respirando la nostra clausura finché un giorno non ci siamo visti uscire, salendo ancora sui mezzi, tornando agli uffici, pulendo e ordinando i negozi, togliendo quei cartelli dei decreti che ordinavano la fine. Lì abbiamo capito che la vita non dipende da noi, siamo noi a dipendere dalla vita e che forse davvero nessuna notte è infinita anche se eterno è il trauma, destinato a stravolgersi in confuse immagini di una paura sempre più lontana, sempre più presente. Distorta come i suoni di questo “No Love Is Sorrow”, elegia del disastro, colonna sonora del nostro implodere pieno d’ammalata speranza di qualcosa, forse capire, forse fuggire, tornare o magari soltanto sentire, ecco, sentire che non siamo feti dopotutto.

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