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“Defund the Police”: oltre il monopolio statale della forza, la privatizzazione dell’autodifesa

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Dopo la morte di George Floyd, vittima dell’ennesimo caso di “police brutality” negli Stati Uniti, milioni di persone si sono riversate in strada, in moltissimi Paesi occidentali, per protestare e chiedere giustizia – purtroppo non sempre pacificamente – ma anche per promuovere idee e slogan. Uno dei più interessanti è senza dubbio “Defund the Police”. L’idea degli attivisti che supportano questa proposta sarebbe tagliare la spesa dedicata ai corpi di polizia, non per diminuire la pressione fiscale sui contribuenti o il debito pubblico, ma semplicemente per dirigere questi fondi verso servizi ritenuti più “meritevoli”, possibilmente le scuole e programmi sociali dedicati ad “educare” i bianchi privilegiati – anche se, a parte delle complicatissime elucubrazioni mentali, non è chiaro quale sia questo privilegio – sulla terribile oppressione sofferta da altre minoranze, nonostante le società occidentali non siano mai state così tanto progressiste, egualitarie e poco razziste come oggi.

Molti, giustamente, temono che il fine sottostante questa battaglia sia minare le capacità di protezione delle nostre comunità: un timore ancora più giustificato dal fatto che molte delle stesse persone che vogliono indebolire le forze di polizia, si siano rese protagoniste nelle scorse due settimane di violenze, devastazioni, furti e atti vandalici nei confronti dei concittadini e delle loro proprietà, fino ad arrivare nei giorni scorsi a statue e monumenti. Di conseguenza, l’unica alternativa ai tagli sembra essere investire maggiormente in formazione e maggiori controlli. Sembra, dunque, che non ci possa essere altra soluzione.

In realtà, sia in teoria che in pratica, esiste una terza via, che potrebbe risolvere i problemi e, allo stesso tempo, accontentare le richieste di entrambe le parti. Secondo alcune teorie libertarie (specialmente quelle anarchiche e agoriste), infatti, non vi sono giustificazioni per il monopolio statale della violenza, anzi, se lasciati liberi di cooperare gli individui componenti una società formerebbero agenzie di protezione, sia a scopo di lucro che non, per far sì che chiunque necessiti del servizio ne possa usufruire. A sostegno di questa teoria c’è, inoltre, un’enorme evidenza pratica.

Il monopolio statale della violenza, infatti, è stato imposto non più di 200 o 250 anni fa, mentre i concetti di vigilanza, sorveglianza, protezione e controllo sono, invece, sempre esistiti. Prima dell’istituzione di tale monopolio, era la società civile a provvedere. Per esempio, nell’Europa pre-industriale, la legge era fatta rispettare da gruppi locali di guardiani volontari o da guardie professioniste, spesso assunte e pagate da chi ne aveva più bisogno (come, per esempio, i mercanti e i commercianti).

Anche oggi, nonostante l’enorme prevalenza statale, ci sono esempi di gruppi volontari e di individui e compagnie specializzate. Si prenda il caso attualissimo delle proteste negli Usa: abbandonati dalla polizia alla devastazione dei manifestanti, molte persone si sono armate e sono accorse a difendere i propri e gli altrui negozi. Un esempio, questo, che dovrebbe invitare a riflettere non solo sul tema di questo articolo, ma anche sulla necessità di riconoscere a tutti la possibilità di potersi difendere dalle aggressioni con i mezzi necessari (armi da fuoco comprese). Sempre negli States, c’è chi, come Dale Brown a Detroit, da più di vent’anni fornisce servizi volontari di protezione e crisi delle emergenze, specialmente in aree spesso “dimenticate” dalla polizia statale. Tali esempi, comunque, non sono solo prerogativa americana, anzi si possono trovare in qualsiasi società, dalle più povere, nel Terzo Mondo, alle più ricche, in Occidente.

Alla luce della sempre più diffusa brutalità poliziesca – anche questa non è una prerogativa americana, basti ricordare i recenti casi di Stefano Cucchi e Giuseppe Uva in Italia – sembra dunque logico auspicare che emergano e si affermino altri esempi di approcci “bottom up” che, per motivi che variano dalla maggior trasparenza, responsabilità, e convenienza economica al minore ricorso alla violenza, sono migliori del monopolio statale, imposto dall’alto (“top down”). Non è certo necessario essere anarchici o agoristi per riconoscere la superiorità di soluzioni localizzate e decentralizzate, rispetto a quelle centralizzate.

Tali idee possono certamente sembrare utopistiche ai più, ma molte delle obiezioni che possono essere rivolte verso questi approcci “libertari” si applicano molto più chiaramente allo “status quo” statale: si pone poca attenzione su questo fatto, forse perché quando ci si confronta con delle idee “radicali” – non incluse in quelle che nel mondo anglosassone chiamano “allowable opinions” – si tende a cercare i difetti in quest’ultime, piuttosto che nello status quo. D’altronde, è chiaro a molti che un monopolio non è una soluzione ottimale se si vuole garantire una giusta ed efficiente “somministrazione” di un servizio, dunque perché una proprietà economica riconosciuta in qualunque altro caso non dovrebbe valere quando il caso è quello della protezione e dell’applicazione della legge? Pensare, infatti, che il privilegio monopolista possa garantire i migliori risultati possibili è wishful thinking, idealismo: questa sì, è utopia. In ultimo, un tale approccio, potrebbe avere anche delle auspicabili conseguenze dal punto di vista legislativo: dovendo dedicarsi ai crimini più importanti e che più affliggono le varie comunità (come, per esempio, omicidi, furti e atti vandalici), è probabile che un tale approccio conduca alla depenalizzazione o, addirittura, all’eliminazione dei cosiddetti “crimini senza vittime” (come, per esempio, la produzione, la vendita, il possesso e l’uso di sostanze stupefacenti) che paiono, invece, essere la priorità per chi amministra giustizia e protezione al giorno d’oggi.

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