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De Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica e la sua visione di power-sharing

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Se ne è andato F.W. De Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica che ha guidato la complessa e delicata fase dello smantellamento dell’apartheid e della transizione del Paese al governo della maggioranza nera.

Si è trattato senza dubbio di una figura significativa che lascia un bilancio politico e storico non facile da valutare, visto il contesto unico e così complicato in cui si è trovato ad operare.

Il Sudafrica del 1989 si trovava in una condizione estremamente complessa, dovendo fronteggiare un crescente conflitto interno e un coordinato assedio internazionale. Il decennio di governo di P.W. Botha era già stato segnato da un certo numero di riforme che, tuttavia erano state sottovalutate e disconosciute dalla comunità internazionale, che anzi a partire dalla metà degli anni ’80, aveva rafforzato il “total onslaught” contro Pretoria.

Le sanzioni nei confronti del Paese ne pregiudicavano le prospettive economiche, a detrimento di tutti gli abitanti e incidentalmente, in misura ancora maggiore, delle prospettive di miglioramento delle condizioni di vita dei neri.

Sul piano interno, d’altronde, la realtà demografica rendeva insostenibile l’idea che il futuro politico delle popolazioni nere del Sudafrica potesse esprimersi solamente nel contesto dei cosiddetti “bantustan”. Il progetto di garantire uno spazio di emancipazione dei neri attraverso una “costellazione di Stati” costituiti su base etnica era in stallo da tempo ed era sempre più forte la pressione per una rappresentanza politica degli “urban Blacks”.

Il trapasso tra la leadership di Botha a quella di De Klerk, nel 1989, fu tutt’altro che cordiale. Botha, indebolito dalla situazione di stallo politico nonché da problemi di salute, fu prima indotto a fare un passo indietro dalla guida del National Party e poi costretto a cedere anche il ruolo di presidente. In breve tempo De Klerk creò le condizioni per lo strappo rispetto alla linea seguita dal suo predecessore e nel giro di pochi mesi, il 2 febbraio del 1990, rese pubbliche decisioni destinate a riconfigurare pesantemente il quadro politico: la legalizzazione dell’African National Congress, la liberazione di Nelson Mandela, l’eliminazione del stato di emergenza in vigore dal 1986.

De Klerk aveva probabilmente visto il giusto nel ritenere che lo status quo stava ormai diventando insostenibile.

Da un lato era sempre più evidente che un sistema di governo non può stare in piedi se i suoi fondamenti non sono riconosciuti dalla maggior parte della popolazione. Per molti versi proprio la crescita delle condizioni di vita, del livello culturale dei neri, che era stata resa possibile proprio dal modello economico imposto dagli “europei” faceva sì che la voce dei neri non potesse più essere ignorata. Dall’altro, sul piano internazionale, la discriminazione razziale rappresentava ormai un bersaglio troppo facile per i nemici del Sudafrica ed al tempo stesso un elemento di imbarazzo per chi invece empatizzasse in modo genuino con la “tribù bianca dell’Africa”.

Nella sua autobiografia “The Last Trek – A New Beginning” De Klerk spiega che uno dei fattori che hanno determinato la sua decisione di imprimere una svolta è stata la caduta del Muro di Berlino nel novembre 1989. “Nel giro di alcuni mesi era venuta meno quella che era stata per decenni una delle nostre maggiori preoccupazioni, cioè l’influenza dell’Unione Sovietica sull’African National Congress e sul Partito Comunista Sudafricano. Questo apriva una finestra di opportunità per un approccio più coraggioso di quanto potesse essere concepibile in passato.”

Nei fatti c’erano adesso maggiori possibilità che l’ANC potesse optare per un approccio moderato e filo-occidentale e non ripetere il triste percorso intrapreso da Robert Mugabe nel confinante Zimbabwe.

De Klerk era probabilmente anche consapevole che il tempo a disposizione per avviare una transizione era limitato, in quanto la congiuntura internazionale non poteva che peggiorare nel tempo.

Negli anni ’80 il Sudafrica poteva ancora contare su un atteggiamento non totalmente ostile di Washington e Londra, ma anche questa limitata solidarietà sarebbe probabilmente venuta meno negli anni successivi. Del resto la fine del pericolo sovietico faceva sfumare il ruolo di Pretoria come presidio anticomunista in Africa, anche considerando la risoluzione della questione namibiana ed il riallineamento politico in Angola e Mozambico.

Per di più, il vecchio Sudafrica non avrebbe mai potuto sopravvivere all’era della globalizzazione ed al pesante orientamento del mainstream culturale e politico occidentale – e in primis proprio dell’Anglosfera – in atto a partire dagli anni ‘90 sui temi dei “diritti civili”.

Insomma, De Klerk doveva agire – e agì.

Tuttavia, fu da subito evidente che il governo del National Party ormai si muoveva su un terreno molto diverso rispetto alla piattaforma programmatica con la quale, con Botha ancora presidente, aveva vinto le elezioni del 1989 – e non era affatto scontato che la nuova linea fosse effettivamente gradita all’elettorato.

Tra il 1991 e il 1992 il National Party si vide strappato il seggio dal Conservative Party, contrario alle riforme, in tre importanti elezione suppletive. Particolare clamore lo destò la suppletiva di Potchefstroom nel febbraio del 1992 che portò l’opposizione di destra a invocare nuove elezioni.

De Klerk rispose con una mossa che si rivelerà uno snodo cruciale per la transizione sudafricana. De Klerk riteneva, con tutta probabilità, effettivamente rischioso un rinnovo del Parlamento e preferì puntare tutto sulla convocazione di un referendum che conferisse al governo un mandato vincolante per negoziare un nuovo asseto istituzionale. Lo scenario del referendum era più promettente per il presidente perché gli consentiva di sommare ai propri sostenitori quelli dei partiti progressisti.

Il “sì” al negoziato vinse con una maggioranza netta. Tuttavia la chiave del successo di De Klerk fu il fatto di mandare all’elettorato un messaggio il più possibile tranquillizzante – cioè che la popolazione bianca non stesse cedendo il potere, ma che si preparasse a “condividerlo”, attraverso opportuni dispositivi di “power-sharing”.

Come ricorda Margaret Thatcher, nell’autobiografia “The Downing Street Years”, a proposito degli incontri con F.W. De Klerk, la via che il presidente sudafricano sembrava prefigurare era chiaramente quella di una compartecipazione al potere esecutivo – un modello “ibrido” e “federale”. “Il principio fondamentale a cui lui si atteneva era che nel nuovo Sudafrica nessuno avrebbe dovuto detenere tanto potere quanto lui ne aveva in quel momento”.

Ma quanta parte della prospettiva che il leader sudafricano prometteva si è effettivamente realizzata? Lo stesso F.W. De Klerk riconosce, nella propria autobiografia, che qualcosa è andato “storto” nei negoziati. Ammette, in effetti, che avrebbe dovuto “spingere di più perché fossero inseriti effettivi strumenti di power-sharing nella Costituzione finale” e si rammarica che l’African National Congress “non abbia voluto accettare dispositivi più forti per adattarsi alla nostra complessa società multiculturale”, incluso il power sharing a livello di potere esecutivo.

Il fallimento di De Klerk su questi aspetti non si traduce in difetti circoscritti del nuovo assetto sudafricano, bensì purtroppo, in falle profonde e condizionanti per l’evoluzione che ha avuto il Paese a partire dal 1994. La Costituzione finale che fu concordata per il Sudafrica prevede, nella pratica, un modello di Stato “uninazionale” e fondamentalmente centralizzato, con solo modeste forme di regionalismo.

È un esito che non solamente ha poco a che fare con la visione di power-sharing che è stata alla base della campagna referendaria del 1992; è anche un esito completamente al di fuori da quello che era stato il dibattito politico sudafricano degli anni precedenti. Nei fatti persino le posizioni più progressiste rappresentate nel panorama della politica sudafricana bianca avevano comunque prefigurato esiti di tipo federale. Lo stesso nome del Progressive Federal Party, che rappresentava l’opposizione “liberal” e anti-apartheid, faceva riferimento a modelli di federalismo tra i vari gruppi etnici.

Ma allora, la questione che ci si può porre, è se il voto del 1992 è stato effettivamente rispettato – cioè se il presidente sudafricano avesse un legittimo mandato democratico per il tipo di approdo cui è arrivato, oppure se invece abbia dirottato il mandato dei cittadini verso un esito certamente “popolare” sul piano internazionale, ma privo di qualsiasi effettiva protezione costituzionale delle minoranze.

Alla fine tutto quello che De Klerk riuscì a spuntare fu la possibilità di formare un governo di coalizione nella prima legislatura, nella quale, però, l’African National Congress godeva, da solo, di un’ampia maggioranza assoluta.

Tuttavia, apparì quasi subito conclamato che il National Party non era in grado di esercitare alcuna vera influenza sul nuovo corso, per cui dopo appena due anni, nel 1996, De Klerk si dimise dalla carica di vice-presidente e portò il partito all’opposizione. Da allora la presa dell’ANC sul Paese è stata inscalfibile.

Che fossero concepibili e politicamente accettabili, anche internazionalmente, assetti di tipo diverso lo dimostra il caso del processo di pace in Irlanda del Nord, all’incirca coevo. In quel contesto, la chiave della soluzione del conflitto politico è stata proprio la disponibilità ad abbandonare il dogma della democrazia maggioritaria ed a riconoscere che il livello di polarizzazione tra le comunità fosse ragionevolmente componibile solamente attraverso l’instaurazione di forme di power-sharing effettive tra la maggioranza protestane e la minoranza cattolica.

E forme di protezione delle minoranze sono presenti in varie forme in tutti i Paesi occidentali dove convivono gruppi etnici e linguistici diversi. In alcuni casi consistono nel ritagliare aree in cui questa minoranza è effettivamente maggioranza e dotarle di istituzioni con speciale autonomia – si pensi all’Alto Adige o alle aree di Eupen e Malmedy per la comunità germanofona belga. In altri casi, laddove una minoranza riconosciuta non costituisca maggioranza in nessuna area, si ricorre a dispositivi ad hoc, anche non territoriali, per garantirle forme di rappresentanza e di autonomia culturale – si pensi alla comunità italiana del litorale sloveno.

In questo senso, la gestione di un contesto così plurale, articolato ed etnicamente polarizzato come quello sudafricano non doveva avvenire semplicemente calando dall’alto un “modello standard” di democrazia occidentale – dove semplicemente vince chi prende più voti.

Il Sudafrica rappresenta un caso unico di una minoranza di storia e cultura occidentale all’interno di un Paese abitato in maggioranza da etnie africane. Un Paese con circostanze così particolari non meritava la pedissequa trasposizione del tradizionale format statuale gerarchico e centralizzato. Avrebbe meritato invece l’individuazione di soluzioni originali di tipo “orizzontale”, un po’ nord-irlandesi, un po’ belghe e un po’ svizzere.

Nei fatti, non si deve avere paura di affermare che in contesti plurinazionali, il rispetto dei diritti individuali può passare anche dal riconoscimento di “diritti comunitari”, mentre un semplice principio maggioritario, solo nominalmente “ethnic-neutral”, può tradursi nei fatti nell’oppressione e nello svilimento dei gruppi minoritari.

Per quanto fossero complicate le circostanze del negoziato, De Klerk non poteva ragionevolmente attribuire l’insufficiente protezione delle minoranze al destino cinico e baro. Il governo di De Klerk era l’”incumbent” in Sudafrica e, come tale, aveva gli strumenti per guidare il processo negoziale e per esercitare un potere di veto sull’esito finale.

Il fatto è che, in termini sostanziali, il presidente sudafricano ha lasciato che il negoziato scivolasse interamente sul terreno concettuale e lessicale dell’African National Congress che riduceva la questione sudafricana alla dicotomia tra un “privilegio bianco” e una “rivoluzione antirazzista”.

La strategia alternativa che De Klerk avrebbe dovuto intraprendere, invece, avrebbe dovuto essere quella di spostare il più possibile il discorso politico sul tema dell’autodeterminazione in un contesto plurinazionale. Paradossalmente, il presidente sudafricano si è reso così dipendente dal rapporto con Nelson Mandela da marginalizzare le posizioni nere favorevoli ad un assetto federale o confederale, come quelle rappresentate dall’Inkatha di Mangosuthu Buthelezi.

Il governo del National Party avrebbe dovuto porre sul tavolo, come linea rossa non negoziabile, il riconoscimento del nuovo Sudafrica come una “nazione di nazioni”, in cui tutti i gruppi etnici “fondatori” avessero diritto alla preservazione della propria storia, cultura, lingua, memoria storica ed identità, indipendentemente dalla loro consistenza numerica.

Cancellare il concetto di nazionalità e di comunità a favore di una democrazia centralizzata indistintamente “uninazionale” crea, purtroppo, le condizioni perché la realtà sudafricana venga letta esclusivamente attraverso lenti “para-marxiste”, cioè in termini di contrapposizione di classe tra la minoranza bianca privilegiata e gli oppressi, i cosiddetti “previously disadvantaged”. Questa modo di leggere le cose imprigiona indefinitamente la realtà della politica sudafricana e consegna alla classe politica dell’African National Congress un potere, di fatto, illimitato nel tempo. Per chi sposa tale visione gli effetti del privilegio bianco non si esauriranno mai e la minoranza bianca risulta portatrice di una colpa che non finirà mai di espiare.

È così che a distanza di più di trent’anni dallo smantellamento dell’apartheid continuano ad essere imposte le pervasive affirmative actions previste dal Black Economic Empowerment (BEE) – l’unico caso al mondo in cui questo tipo di programmi sono realizzati non per proteggere una minoranza, ma per colpirla.

Al tempo stesso la storia nazionale della popolazione bianca, presente nel Paese da oltre trecento anni, è svilita quando non demonizzata, mentre la lingua afrikaans e la cultura afrikaner si trovano sprovviste di qualsiasi vera forma di tutela istituzionale.

F.W. De Klerk è stato un politico di idee intelligenti ed equilibrate in molti ambiti politici, con una forte sensibilità sui temi dello sviluppo economico e del progresso effettivo delle condizioni di vita dei cittadini. Dal suo punto di vista “la chiave per la soluzione del problema dello scontento e della disillusione è una crescita economica rapida e sostenuta. L’esperienza ha mostrato che più velocemente cresce l’economia, più velocemente si raggiunge una migliore distribuzione dei redditi”. Per questo occorre “incoraggiare gli investimenti domestici e internazionali, aprire il Paese in modo responsabile alla competizione globale, continuare le privatizzazioni e creare un sistema di organizzazione del lavoro più flessibile e produttivo”, oltre, che mantenere “una macchina di governo efficiente dal punto di vista dei costi, efficace e onesta”.

Sarebbe stato un brillante politico di centrodestra all’interno di una “normale” democrazia occidentale – come l’Australia o il Canada. Purtroppo, nel contesto specifico sudafricano non ha compreso fino in fondo – o ha compreso troppo tardi – quanto le “rinunce” fatte durante il processo negoziale tra il 1992 e il 1994 hanno strutturalmente compromesso la possibilità di perseguire proprio quegli obiettivi di sviluppo sociale ed economico che si prefiggeva consegnando all’African National Congress il monopolio del potere e della “narrazione”.

Nei fatti, nessuno degli auspici o delle previsioni che De Klerk ha formulato, né in termini di economia e di buongoverno, né in termini di sviluppo di una compiuta democrazia dell’alternanza si è purtroppo realizzato. Le elezioni del 2019 confermano un voto ancora profondamente allineato su pattern razziali, con un 70 per cento dei consensi raccolto ancora dall’ANC e dal movimento nero radicale EFF, mentre resta diffusa la corruzione e non accennano a ridursi le disuguaglianze economiche.

In definitiva, pur dovendosi riconoscere a De Klerk di aver compreso l’inevitabilità e l’urgenza di far uscire il Paese dalla situazione di impasse in cui ormai si trovava, la sensazione è che non abbia messo in atto sufficiente forza negoziale nelle trattative che hanno portato alla nascita del nuovo Sudafrica – che non abbia creduto abbastanza alla possibilità di raggiungere, se necessario con tempi più lunghi, punti di intesa più ambiziosi e più utili per il futuro.

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