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A dicembre si decide Brexit: ecco perché le elezioni anticipate sono un secondo referendum

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Un secondo referendum su Brexit ci sarà. Perché le elezioni anticipate che il 12 dicembre decreteranno chi guiderà i Comuni sono anche questo, un voto sul divorzio dall’Unione europea alla luce di quanto accaduto negli ultimi tre anni e mezzo: se i Conservatori dovessero ottenere quella maggioranza che non sono riusciti a garantirsi nel 2017 con Theresa May, potranno portare a compimento il piano presentato nelle scorse settimane da Boris Johnson; se invece i Laburisti saranno in grado di ribaltare le previsioni e Jeremy Corbyn riuscirà a insediarsi a Downing Street, allora potremmo assistere ad un nuovo colpo di scena con diverse variabili – una Brexit decisamente soft se non un vero e proprio secondo passaggio referendario per tentare di ribaltare l’esito di quello del 2016.

Le urne sono diventate un passaggio obbligato per Johnson: il 31 ottobre è arrivato senza che nulla sia cambiato, con il Regno Unito ancora membro dell’Ue almeno fino al prossimo 31 gennaio come previsto dalla terza estensione dell’Articolo 50. Un’estensione flessibile, perché se a Londra nel frattempo dovesse essere approvato il Withdrawal Agreement Bill (WAB) concordato tra le due parti in campo, la saga potrebbe concludersi anticipatamente. Le votazioni a Westminster degli ultimi giorni hanno segnato un mezzo punto di svolta: per la prima volta in assoluto, un accordo siglato dal governo è stato sostenuto dalla maggioranza dei parlamentari, ma gli stessi parlamentari hanno impedito a Johnson di dare seguito all’imperativo “Get Brexit done” entro fine mese, timorosi di uno scenario No deal dietro l’angolo. Da qui la richiesta di Johnson di andare al voto per dare un mandato chiaro ai Comuni impantanati nell’indecisione. Con il benestare di Corbyn, rasserenato dal fatto che le ipotesi di un divorzio senza accordo siano al momento impossibili, vista la proroga concessa dagli emissari europei.

Le elezioni di Boris Il primo ministro è più che mai determinato: gli manca un mandato popolare vero e proprio. Per ora i sondaggi lo premiano, ma il clima politico d’Oltremanica è diventato piuttosto “latino” e dunque imprevedibile. Da diversi istituti i Tories sono addirittura accreditati di un costante 35 per cento di consensi tra gli intervistati, una soglia che con Theresa May appariva ben lontana. Johnson aveva promesso di chiudere la pratica, “do or die”, entro il 31 ottobre, ma i conti non sono tornati. La già risicata maggioranza ereditata è evaporata velocemente tra addii e cambi di casacca, l’opposizione europeista interna al partito ha fatto il resto come accaduto con l’approvazione dell’emendamento presentato da Oliver Letwin che ha allungato i tempi di approvazione del WAB. Alcuni rumours suggeriscono che nel governo non tutti considerino le urne come la mossa migliore, ma ciò non lo ha fatto desistere.

Johnson è alla ricerca di un esercito che lo segua fedele prima di tutto per trasformare Brexit in una realtà, quindi per mettere mano all’agenda di governo con investimenti nel sistema sanitario, scolastico e sociale, i punti chiave con i quali ha chiesto e ottenuto la fiducia del partito la scorsa estate. Sa che se dovesse davvero trionfare – ovvero conquistare una maggioranza autonoma, senza il sostegno per esempio degli Unionisti nordirlandesi, scettici sul nuovo accordo con l’Ue –, allora si potrebbe considerare chiusa la snervante campagna post referendaria che ha tenuto banco dal momento in cui si è materializzata la vittoria del Leave. Ha un carisma più solido della May e dunque molti più detrattori, una presa più forte sulla base conservatrice e al contempo più nemici nei corridoi del potere, ma una larga approvazione popolare lo metterebbe al riparo da numerose imboscate: se gli elettori voteranno per lui, allora significherà che avranno appoggiato la sua Brexit, chiedendo di passare oltre e dedicarsi ai tanti altri temi da troppo tempo in secondo piano.

Le elezioni di Corbyn Euroscettico prima, forse eurofilo poi. Contro la May e Johnson, ma mai dichiaratamente a favore di elezioni anticipate per misurare la sua popolarità nell’opinione pubblica britannica. Rottamatore del New Labour di blairiana memoria con uno stato maggiore che ha fatto terra bruciata dei contestatori più moderati, con prevedibili conseguenze negative sull’immagine di unità del partito. Fantasmi del passato che puntualmente tornano a far capolino, creando situazioni imbarazzanti specie sulla questione dell’antisemitismo. A lungo Corbyn ha potuto godere dei pasticci conservatori, restando immobile mentre il nemico sbagliava. Dalle elezioni di due anni fa è uscito come vincitore mediatico, a questo giro dovrà faticare il doppio per ricreare quel momentum che lo ha aiutato a risollevare morale e sorti laburiste dato che il suo non prendere una chiara posizione sull’eventualità di un secondo referendum ha avvantaggiato i Liberaldemocratici e indebolito i suoi. Molti storici seggi legati al partito nel 2016 si sono espressi a favore di Brexit, senza essere ricambiati a Westminster.

I sondaggi indicano mediamente un distacco di dieci punti dai Conservatori: ad inizio anno erano alla pari, in primavera i Laburisti erano in testa, poi ha iniziato a farsi sentire l’effetto BoJo. Dalla sua ha la testardaggine con la quale si fa promotore di un laburismo vecchio stampo (nazionalizzazione è una delle parole d’ordine) e una sorta di understatement figurativo: l’uomo all’apparenza mite – in realtà non apprezza il dissenso – che si oppone ai privilegiati Tories. Vuole che il regno resti nell’unione doganale europea, almeno al momento di pubblicare queste righe. Poi si vedrà. Un underdog, uno sconfitto in partenza che non va mai dato per perdente.

Le elezioni degli altri Jo Swinson sta trasformando i Liberaldemocratici nel feudo di Remainers irriducibili e punta a far crescere il bacino di voti attingendo all’area europeista dei due principali rivali e galvanizzata dall’esito delle Europee. In caso di hung parliament (nessuno dei contendenti raggiunge una maggioranza assoluta) può proporsi come ago della bilancia, avanzando una chiara richiesta: che la separazione con l’Ue venga revocata o che si organizzi un nuovo referendum. A Corbyn potrebbe dunque far comodo.

La Scozia è territorio degli indipendentisti europeisti dello Scottish National Party. Vogliono bloccare Brexit in ogni modo, ultimamente battibeccano spesso con i Laburisti come fanno due amanti che si punzecchiano. Il loro programma prevede un nuovo referendum sull’indipendenza dopo la sconfitta del 2014, ma il successo nelle urne elettorali non combacia per forza con la volontà popolare di staccarsi da Londra.

E poi c’è il funambolico Nigel Farage. Brexit Party ha stravinto facile a maggio (30%), con i Tories danneggiati dagli sgoccioli di governo May e i Laburisti senza credibilità sul tema più scottante. Con Johnson a Downing Street si sono notevolmente ridimensionati, stanno tentando da tempo di offrirsi come alleati – ma a Farage non piace nemmeno l’ultimo accordo con Bruxelles. Potrebbero beneficiare dell’ennesimo rinvio se questo dovesse accrescere il malcontento tra i Brexiteers più agguerriti. La variante indecifrabile è proprio Farage che fa e disfa ad una velocità senza pari.

Per qualcuno sarà un Natale ancora più sereno, per altri si rivelerà modesto e malinconico. Come raccontato dal politologo Philip Cowley sul Daily Mail, sono diversi i fattori che rendono queste elezioni imprevedibili . Nulla va dato per scontato, a differenza di tre anni e mezzo fa, quando in molti si svegliarono con un gran mal di testa che non è ancora passato.  

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