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Il Platinum Jubilee e il segreto della monarchia britannica

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“In days of disillusion, however low we’ve been, to fire us and inspire us, God gave to us our Queen […] From that look of dedication, in those eyes profoundly blue, we know her coronation, as a sacrament and true”.

Così recitava il poeta Sir John Betjeman nel 1977, in occasione dei venticinque anni di regno di Elizabeth Alexandra Mary.             

Quando Elisabetta Windsor divenne regina, il 6 febbraio 1952, l’inquilino di Downing Street era Sir Winston Churchill, i quattro componenti dei Beatles andavano ancora a scuola e non era iniziata l’epopea di James Bond. Come se non bastasse, il Regno Unito tentava ancora di considerarsi un impero. Il suo sembra dunque un regno infinito, iniziato in un mondo completamente diverso da quello nel quale viviamo oggi. Ma nonostante Elisabetta II appartenga ad un’altra epoca, ora che si accinge a celebrare i settant’anni di regno, l’ambito Platinum Jubilee, non possiamo che rimarcare quanto la sua presenza sia ancora oggi, a distanza di tempo, una delle (poche) fonti di stabilità su cui i suoi sudditi possono fare affidamento.

Elisabetta II è ascesa al trono nel momento di passaggio per la Gran Bretagna da nazione imperiale ad isola a cavallo fra Europa e Atlantico. Un cambiamento graduale che ha certamente ridisegnato i connotati del Regno dopo secoli di predominio globale. Dalla crisi di Suez alla Swinging London, dal thatcherismo alla Cool Britannia di Tony Blair, fino alla recente Brexit: la regina ha perennemente vegliato sulla nazione, vedendone mutamenti, crisi e rinascite, motivo per il quale sarebbe impossibile riassumere in poche parole i tratti della sua figura.

Le persone a lei più vicine, come il consorte Filippo o la sorella Margaret, se ne sono andate una dopo l’altra, ma lei rimane ancora lì, ineccepibile e venerata come non mai. Ha superato ogni record, persino quello della trisnonna Victoria, il cui regno durò solamente 64 anni.

A chi si chiede se la sovrana ormai anziana stia pensando di lasciare il trono, possiamo dire che Elisabetta, con molta probabilità, non arriverà ad abdicare. Non è nel suo ordine di idee, dato ciò che la rinuncia reale ha rappresentato per lei e la sua vita. Se infatti nel 1936 lo zio Edoardo VIII non avesse abdicato in assenza di eredi, probabilmente Elisabetta non sarebbe mai diventata regina, in virtù della primogenitura che ancora vige nella gerarchia dei Windsor. Avrebbe vissuto immersa fra cani e cavalli, sue grandi passioni, senza il peso di un destino dal quale non si può sfuggire. La monarchia è prima di tutto duty, ed Elisabetta ha sempre anteposto il dovere a qualunque cosa: alla maternità, agli affetti, alle passioni, alle idee personali.

Ha superato scandali e turbolenze non senza difficoltà, come dimostra il crollo di popolarità a fine anni ’90 in concomitanza della morte di Lady Diana, o l’attuale scandalo che ha coinvolto il principe Andrew. A seguito di simili vicissitudini, la regina ha sempre cercato di non tradire il senso del ruolo che ricopre, consapevole che le crepe e le fratture interne alla famiglia in lei non dovessero mai trasparire, e che l’intero impianto morale su cui si regge la monarchia non venisse intaccato dalle vicende umane ad essa legate.

Spesso ci si chiede cosa ci sia dietro i sorrisi di protocollo della regina, che prima di tutto è donna, madre, nonna e bisnonna. La madre della nazione in tutti i sensi, soprattutto da quando nel 2002, con la scomparsa della regina madre, è diventata il membro più autorevole e venerato dei Windsor. È l’erede di una famiglia che non ha mai abbandonato il suo popolo, nemmeno quando le bombe naziste colpirono il palazzo reale nel 1940, e che avrebbe certamente impedito l’insorgere di qualsiasi regime totalitario. È il simbolo di un’istituzione in apparenza anacronistica ma fortemente radicata nella tradizione costituzionale del Regno Unito e che andrà indubbiamente in crisi dopo la dipartita di Lilibet. Gli attuali sondaggi fanno intuire che il futuro della monarchia sarà nelle mani di William e Kate, ed è su di loro che Elisabetta sta fortemente puntando.

Ci vuole molto più del semplice mantra “to be consulted, to encourage and to warn”, indicato da Walter Bagehot, per delineare il rilievo che Elisabetta II ancora possiede dopo settant’anni.

La sua presenza è garanzia di quella libertà a cui i britannici non smettono mai di rinunciare, nemmeno nei momenti più drammatici. Descriverla semplicemente come capo di Stato è forse riduttivo, anche alla luce delle dispute storiche che hanno portato la Corona ad avere le sembianze odierne. Risponde solo ed unicamente al suo popolo e sta sul trono perché i suoi sudditi vogliono che stia lì, pur non avendola mai eletta. Ogni istituzione e ogni organo governativo è formalmente in capo a lei, ovvero operano per conto di Sua Maestà. In sostanza però, si tratta di enti autonomi, poiché Elisabetta non ha facoltà d’intromettersi nel processo decisionale. Va comunque ricordato che la sovrana detiene le cosiddette royal prerogatives che Bagehot descrisse come “powers which waver between reality and desuetude”.

Non ha dunque il potere di governare, ma ha il dovere di garantire che ci sia un governo in carica sano, stabile e legittimato a detenere il potere. Quella legittimazione è popolare, e Sua Maestà deve realmente preoccuparsi che tale rimanga e venga rispettata, senza che i governanti eletti abusino delle proprie funzioni. Questo perché la sovrana è letteralmente imparziale e al di sopra della politica parlamentare di Westminster, a differenza di molti capi di Stato repubblicani che, con le dovute eccezioni, difficilmente riescono a mantenere intatta la loro neutralità. Inoltre, qualora da Sua Maestà traspaia, seppur velatamente, un qualche spiraglio di eccessiva intromissione, molti nella classe dirigente e nell’opinione pubblica sarebbero pronti a ricordare quali siano i confini entro cui la monarchia deve stare, come d’altronde è da diversi secoli.

A tal proposito, è impossibile dimenticare l’incidente comunicativo fra Buckingham Palace e Downing Street nel 1986, quando il Sunday Times aveva insinuato da fonti vicine a palazzo che la sovrana fosse apertamente infastidita dall’inflessibilità dell’allora primo ministro Margaret Thatcher, scatenando lo sdegno del governo. Al centro del diverbio vi erano le sanzioni contro il Sud Africa dell’apartheid; del resto, la salute del Commonwealth è sempre stata una delle maggiori preoccupazioni di Elisabetta.

Alla luce di episodi di questo tipo e di colloqui settimanali con ben 15 primi ministri, si è spesso tentato di decifrare le sue posizioni politiche, ma senza grandi risultati: c’è chi la vede più vicina ai laburisti e chi invece la riconosce nel conservatorismo pre-thatcheriano e dunque “one-nation”.                                                                                                         

Sembra scontato, ma la sua longevità nei cuori dei sudditi è dovuta alla perfetta neutralità e alla grande capacità di adattarsi al cambiamento quando questo è necessario, e non for the sake of progress. Come ricorda spesso Antonio Caprarica, la sudditanza dei britannici all’istituzione monarchica è pressoché formale, dunque differente dalla sudditanza quasi sostanziale con la quale molti cittadini continentali sono spesso alla mercé di uno Stato vessatorio e burocratico che ci rende più sudditi di quanto non lo siano gli abitanti della perfida Albione, e noi italiani ne sappiamo qualcosa.

Nulla può unire i britannici più di Elisabetta, tanto che i turbamenti e lo sconforto che sorgeranno durante e dopo il suo trapasso saranno innumerevoli. E ciò che li unisce è anche la riverenza al mistero che irrimediabilmente aleggia attorno all’istituzione che incarna. Quel segreto per noi incomprensibile è l’essenza stessa della monarchia d’Oltremanica, fatta di detto e non detto, di simbolismo e formalità, di unità nazionale e profonda devozione. Cercare una spiegazione esaustiva alla natura stessa della monarchia non farebbe altro che dissolverne l’essenza, come ricorda Bagehot nella sua The English Constitution:    

“Above all things our royalty is to be reverenced, and if you begin to poke about it, you cannot reverence it. When there is a select committee on the Queen, the charm of royalty will be gone. Its mystery is its life. We must not let in daylight upon magic. We must not bring the Queen into the combat of politics, or she will cease to be reverenced by all combatants; she will become one combatant among many”. 

Come capo della Chiesa Anglicana, Elisabetta è anche connotata da una forte religiosità. Ma del resto Dio, in Gran Bretagna, è da tempo immemore impegnato in una missione che sull’isola è diventata priorità assoluta: proteggere Sua Maestà. Ancora oggi, dopo settant’anni, per queste e molte altre ragioni, è il caso di dire God save the Queen. 

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