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La Brexit sarà anche un pasticcio, ma la democrazia parlamentare Uk è viva e vegeta, mentre in Italia (e nell’Ue) è muta

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È più che mai facile in queste settimane sorridere ironicamente di fronte alle cronache che giungono da Londra con il perenne susseguirsi di colpi di scena e capriole attorno al destino della Brexit: i parlamentari della House of Commons riescono a battere in goffaggine quelli di Montecitorio e Palazzo Madama, a superare l’Italia nelle barzellette che si raccontano negli angoli d’Europa. È d’altra parte più difficile, forse perché richiede maggiore concentrazione ed è necessario un punto d’osservazione più bilanciato e meno offuscato dalle prese di posizione estreme – pro o contro -, ammettere che ciò che sta andando in scena a Westminster è la manifestazione della democrazia parlamentare, compresi tutti i suoi limiti dovuti agli errori che gli uomini inevitabilmente commettono.

Lunedì pomeriggio lo Speaker della House of Commons, John Bercow, ha ulteriormente affossato il piano del primo ministro Theresa May per uscire dall’Ue entro il 29 marzo: già bocciato due volte (a novembre e la scorsa settimana), il Whitdrawal Agreement stipulato con Barnier e Juncker avrebbe potuto essere nuovamente presentato ai deputati britannici per un terzo voto, ma Bercow si è appellato alle conseutudini, come da tradizione nella vicende politiche e giudiziarie d’Oltremanica, rispolverando una prassi risalente al 1604 e ripresa per l’ultima volta nel 1920 in cui si sottolinea come non si possa sottoporre per due volte all’attenzione del Parlamento un provvedimento già respinto, a meno che non vengano presentate modifiche sostanziali.

Bercow è un convinto Remainer più volte accusato di voler sabotare il risultato del referendum del 2016 con i suoi interventi nel regolare tempi, modi e contenuti dei confronti in aula e la sua strategia potrebbe rivelarsi vincente, per lo meno nel rendere la Brexit ancora più soft. Ma c’è dell’altro: la May sin da subito ha dovuto fare i conti con le richieste dei Comuni di essere protagonisti e non solo passacarte delle trattative con l’Ue. Una prerogativa sancita anche dalla Corte suprema della Corona. Sottoporre agli stessi parlamentari il medesimo accordo già rispedito al mittente in due precedenti rimanda invece ad una certa prassi europea adottata in passato con Danimarca e Irlanda quando gli esiti referendari su questioni comunitarie (i Trattati di Maastricht e Nizza) non si erano rivelati favorevoli a Brussels già al primo tentativo.

Argomenti che dovrebbero stuzzicare gli intellettualissimi italiani che inneggiano alla retorica ormai usurata della rappresentanza delle due Camere: il Parlamento come custode della storia repubblicana, libera e democratica. Ma al di là delle battute sagaci e anche giustificate per quanto sta accadendo a Londra, non ci si rende conto che a queste latitudini il Parlamento è sempre più concepito come un mero ufficio notarile dove apporre firme, senza confronti sul contenuto. Non sorprende quindi il totale silenzio di deputati e senatori – mentre si nota quello del Colle – di fronte ad un governo che per esempio si appresta a prendere decisioni delicate sui rapporti commerciali con la Cina dai notevoli risvolti geopolitici, compresi i rapportorti con alleati come gli Stati Uniti: il presidente del Consiglio ieri è intervenuto per relazionare, ma in una indifferenza tanto politica quanto mediatica, se non fosse per le diverse prese di posizione all’interno dell’esecutivo. Il Parlamento in seduta fa notizia solo per gesti eclatanti e spintoni ripresi al telefonino.

Un’amara normalità, nemmeno una barzelletta che faccia ridere.

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