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La Catalogna torna al voto: cresce la frammentazione in attesa di un’altra complicata elezione

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Si avvicinano le elezioni catalane del 14 febbraio – elezioni anticipate, dopo l’inabilitazione del presidente Quim Torra, condannato per aver tardato a far rimuovere dal palazzo della Generalitat uno striscione a sostegno dei politici indipendentisti detenuti.

Si va al voto senza cambiamenti sostanziali del quadro politico, in una situazione di stallo sia nei rapporti di forza tra indipendentisti e unionisti che nel dialogo tra il governo di Barcellona e quello di Madrid.

Secondo i sondaggi le forze indipendentiste, nel loro complesso, dovrebbero ancora una volta conseguire la maggioranza dei seggi e la lotta per la guida della Generalitat dovrebbe essere tutta interna all’indipendentismo, con “Insieme per la Catalogna” (Junts per Catalunya) dell’ex presidente in esilio Carles Puigdemont e la “Sinistra Repubblicana Catalana” (ERC) dell’ex-vicepresidente catalano arrestato Oriol Junqueras a contendersi la prima posizione.

Tutto lascia prevedere un pesante arretramento per il partito “spagnolista” Ciudadanos, con la leadership dell’unionismo destinata a passare al Partito Socialista.

Le due principali forze dell’indipendentismo appaiono, per molti versi, quanto mai divise sulla strategia. Puigdemont continua a spingere per un conflitto aperto con Madrid, sulla base del mandato del referendum indipendentista del 1° ottobre 2017. Dal canto suo, ERC appare più propensa a forme di collaborazione e di dialogo con il governo socialista spagnolo di Pedro Sánchez.

ERC, che candida alla presidenza Pere Aragonès, arriva alle elezioni con una forte aspettativa di uscire come primo partito e di poter così delineare i termini complessivi dell’azione indipendentista.

Dal canto suo Junts per Catalunya, che candida Laura Borràs, si affida ancora una volta alle straordinarie capacità di trascinamento di Puigdemont, che nel 2017 “si inventò” un sorpasso in extremis nei confronti di ERC che da molti era ritenuto, alla vigilia, implausibile.

Stavolta la partita per Puigdemont appare più difficile, in virtù delle scissioni subite. In effetti nel 2017, Junts per Catalunya si presentava nella forma di una coalizione elettorale di vari soggetti, tra cui il Partito Democratico (PDeCAT), erede della gloriosa Convergencia che con Jordi Pujol e Artur Mas aveva governato il paese quasi ininterrottamente dal 1980. Tuttavia, Puigdemont, per limitare i condizionamenti, ha deciso di trasformare la coalizione in partito, obbligando tutti i movimenti a sciogliersi in un soggetto unitario. Così facendo, tuttavia, ha perso pezzi, primariamente tra coloro che ritengono che il nuovo partito unitario abbia accettato, in nome dell’indipendentismo, troppi compromessi ideologici con le sue aree più di sinistra e quindi ormai sottorappresenti la componente di centro e di centro-destra tradizionalmente legata alla vecchia Convergencia.

La prima a staccarsi è stata la ex segretaria del PDeCAT Marta Pascal che ha dato vita al nuovo Partito Nazionalista di Catalogna (PNC), espressione di un catalanismo moderato e centrista ed ispirato al modello del Partito Nazionalista Basco nei Paschi Baschi.

Poi è stato il PDeCAT nel suo complesso a rifiutare la prospettiva di scioglimento tout court in Junts per Catalunya, in nome della difesa della propria specifica ideologica e culturale. Il PDeCAT ha cercato, in primo luogo, di arrivare alla formazione di un’alleanza elettorale con Junts per Catalunya; tale prospettiva è, però, naufragata, malgrado la mediazione dell’ex presidente Artur Mas, a fronte del netto rifiuto da parte di Junts per Catalunya di una riproposizione del modello del cartello elettorale. Il PDeCAT si avvia, quindi, alla competizione in solitaria, con la candidatura di Àngels Chacón alla presidenza.

Pur pescando sostanzialmente nello stesso elettorato, il PNC della Pascal e il PDeCAT della Chacón non sono riusciti a trovare un accordo. Entrambi i partiti condividono la necessità di un rilancio dei temi economici, ritenendo che la politica del paese non possa ruotare indefinitamente attorno alla sola questione della sovranità. Non per questo, tuttavia, sconfessano la ricerca dell’indipendenza, sia pur in modi e con forme diverse.

Il PNC si dice “non solamente indipendentista”, nel senso che si propone di unire indipendentisti e autonomisti in una strategia che rifiuti l’unilateralità e ricerchi un referendum concordato con la Spagna. Non si dice disposto a sostenere un nuovo governo tra Junts per Catalunya e ERC e ritiene che il paese abbia bisogno di superare la contrapposizione netta tra il blocco indipendentista e quello unionista.

Il PDeCAT si iscrive invece pienamente all’indipendentismo ed appare pronto a governare con i partiti di Puigdemont e di Junqueras, purché almeno resti fuori dalla maggioranza l’estrema sinistra indipendendentista della CUP.

I sondaggi sembrano, in realtà, impietosi per entrambe le formazioni del catalanismo “moderato”. Il PDeCAT, malgrado il suo radicamento territoriale, non è dato oltre il 2 per cento e, nella migliore delle ipotesi, potrebbe arrivare ad un seggio nel nuovo parlamento, mentre il PNC appare destinato a rimanere fuori.

Se queste tendenze saranno confermate, apparirà evidente come, nella Catalogna di oggi, persino di fronte alla pandemia e alla relativa crisi, la questione istituzionale e identitaria abbia ormai vinto la partita sulla questione economica.

Chi si identifica con il catalanismo vede, ormai, nella sovranità una questione primaria ed ineludibile e non pare più disposto a rientrare nei ranghi e ad appassionarsi di nuovo alla gestione ordinaria dell’esistente.

Per la prima volta, nelle elezioni di febbraio, scende in campo anche l’indipendentismo di destra con il nuovo Fronte Nazionale di Catalogna che fa campagna sui temi di sicurezza, immigrazione, identità linguistica e culturale, e sviluppo economico. Candida alla presidenza Albert Pont, attualmente alla guida di un’associazione di imprenditori catalanisti.

Insomma, un quadro nel complesso abbastanza frammentato che può essere letto come espressione di vitalità della politica catalana ma, per molti aspetti, può essere visto anche come sintomo di uno stato di travaglio, a fronte della difficoltà di individuare percorsi chiari per il futuro istituzionale del paese.

Certamente, tuttavia, si deve riconoscere che l’indipendentismo si trova in questo momento in una condizione di impasse. Né la strategia “unilateralista”, né quella basata sul dialogo e la bilateralità paiono offrire sbocchi chiari.

Per gli oppositori dell’”unilateralismo”, tale strategia messa in atto con la dichiarazione di indipendenza del 2017 si è rivelata conclamatamene inefficace. D’altronde, anche la strategia del dialogo può risultare sterile, se a dialogare non si è in due – cioè se dall’altra parte non si trova un David Cameron, ma una controparte che rifiuta a priori il diritto all’autodeterminazione.

Per certi versi, l’unica via che appare possibile è forse quella che attinga sia alla strategia dell’unilateralità che a quella del dialogo, dosandole nelle maniere opportune. Nei fatti anche gli “unilateralisti” più convinti devono riconoscere che difficilmente l’indipendenza potrà prescindere da un riconoscimento da parte della Spagna; d’altro canto, i sostenitori del dialogo devono riconoscere che, senza le dinamiche messe in atto dal processo unilaterale del 2017, ci sarebbero ben poche leve attraverso cui poter innescare oggi una trattativa. Vediamo, a questo punto, quale sarà l’esito delle elezioni, come si configurerà il nuovo governo della Generalitat e quale sarà, rispetto alla fisionomia del nuovo governo, la risposta di Madrid.

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