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“L’Isola delle Rose”: per una volta il cinema italiano si concede un inno libertario

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“L’incredibile storia dell’Isola delle Rose”, pellicola di Sydney Sibilia uscita in questi giorni su Netflix, è davvero una bellissima sorpresa che porta sui nostri schermi temi e sensibilità a cui certamente la cinematografia italiana non ci ha abituato.

Il film narra la storia dell’Isola delle Rose, un minuscolo “Stato indipendente” fondato, nel 1968, da un ingegnere bolognese, Giorgio Rosa. L’isola era costituita da una piattaforma artificiale, al largo della costa di Rimini, fuori dalle acque territoriali italiane. L’indipendenza dell’Isola delle Rose e il potenziale di “concorrenza” da esso rappresentato erano inaccettabili per la politica italiana di maggioranza e di opposizione; e così, dopo un lungo contenzioso, l’Italia risolse la questione manu militari distruggendo l’isola “ribelle”.

Negli ultimi anni l’interesse per l’epica battaglia indipendentista dell’ingegner Rosa si è fortemente ravvivato e, in effetti, il film di Sibilia non è il primo tentativo di raccontare quella strana pagina di storia.

Dopo il bel film-documentario del 2009 di Stefano Bisulli e Roberto Naccari, “L’Isola delle Rose. La libertà fa paura”, nel 2012 l’effimera storia della micro-nazione fu rilanciata da Walter Veltroni, con il suo romanzo “L’isola e le rose”. L’ex segretario del Pd, tuttavia, rielaborò a modo suo la vicenda dell’isola, rendendola una sorta di “utopia progressista”, popolata di tutte le suggestioni e le buzzword della cultura “liberal”: la “pace”, la “proprietà della comunità”, i “diritti sessuali per tutti”, “l’istruzione gratuita”, la “sanità di qualità”, l’”acqua pubblica”, il “rispetto della natura” e delle “capacità di ciascuno”.

Fortunatamente la pellicola di Sibilia non si innesta sul romanzo veltroniano ma realizza un adattamento originale che, pur romanzando la vicenda dell’ingegner Rosa, rimane più fedele al suo spirito.

I ragazzi del film non sono ammalati di politica e non cercano un mondo di “diritti sociali”. Cercano libertà. Libertà da tasse e regolamentazioni italiane. Libertà anche di “fare soldi”. Di intraprendere attività economiche pacifiche, senza dover chiedere una “licenza” a nessuno.

Il giovane Rosa parla chiaro. I soldi che ha guadagnato sono suoi e nessuno ha il diritto di dichiararli illegali.

Pur nella leggerezza di un’opera per il grande pubblico, i termini della questione sono presentati in maniera esplicita e senza sbavature. C’è la contrapposizione tra “diritto naturale” e “diritto positivo”, nella lezione universitaria di Gabriella. C’è la differenziazione netta tra “libertà” e “permesso” – e lo squallore del doversi sottomettere ad un potere arbitrario e distorcente per vedersi concessa la possibilità di operare in economia.

Ed è particolarmente significativo anche il raffronto del ’68 della “contestazione” con il ’68 dell’Isola delle Rose. Da una parte chi pretende di cambiare il mondo “distruggendo” e invece chi il mondo lo vuole cambiare “costruendo” – e come proprie armi non usa le molotov, ma l’ingegno e la capacità di intraprendere.

Dal punto di vista cinematografico, il film risulta molto gradevole: bella storia, bella fotografia, personaggi convincenti. Ha tutti gli ingredienti giusti per risultare un successo e questo è veramente una benedizione, perché l’egemonia della sinistra tradizionale sulla cultura non la si combatte solo lamentandosene. La si combatte attraverso opere culturali di taglio diverso fatte bene.

“L’incredibile storia dell’Isola delle Rose” ha senza dubbio il merito di portare un fresco messaggio libertario e di consentire ad un pubblico vasto di scoprire una coraggiosa avventura di esplorazione imprenditoriale e normativa.

La vicenda dell’Isola delle Rose può sembrare storicamente insignificante; tuttavia, per molti versi, la sua valenza la si misura proprio nella reazione messa in atto dallo Stato italiano. Tale azione può apparire sproporzionata, ma in realtà fu la conseguenza della percezione della portata potenzialmente dirompente della “sfida” rappresentata dalla minuscola isola.

I concetti di “concorrenza istituzionale” e di “secessione” erano allora, come lo sono oggi, i nemici più insidiosi per il Potere e per la visione centralista ed assolutista della statualità. E per questo dovevano e devono essere espunti alla radice.

Questa cosa gli statalisti di ogni colore ce l’hanno più che chiara. Ma chi crede nelle idee di libero mercato ha altrettanto chiaro come la libertà individuale, economica e civile, prosperi più e meglio nei contesti di decentralizzazione politica, di pluralità istituzionale e di concorrenza fiscale e normativa. È una dinamica che vale sempre e che fa sì che oggi come cinquanta anni fa una delle partite più importanti sia tra chi auspica un’armonizzazione centralista e chi invece rivendica il diritto di provare a determinare esiti diversi.

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