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L’ossessione del gender gap: uguali a tutti i costi. Inganni e ipocrisie dell’ideologia femminista

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Il World Economic Forum ha pubblicato un report sulla disparità di genere – l’Italia è al 70° posto fra i 149 Paesi analizzati – e subito tutta la stampa mainstream è intervenuta con svariati articoli sul gender gap, commenti e riflessioni da parte di tristi rappresentanti di comitati femminili, donne che rivendicano libertà e che probabilmente nessuno ha mai voluto sottomettere.

Inizia così la solita lamentela sulle donne che non hanno le stesse possibilità degli uomini di studiare, lo stesso livello di retribuzione, che non partecipano attivamente alla vita politica, sono poco presenti nei vertici aziendali e tutto il resto della ormai nota e disgustosa solfa.

Ma non si tratta di una vera discussione sulle pari opportunità, soltanto di meri deliri legati alla tirannia del politicamente corretto, che colpisce ancora e per cui la disuguaglianza viene descritta anche in tal caso come il male del nostro tempo. La macchina deve generare uguali, senza se e senza ma, senza tener conto che magari la stragrande maggioranza delle donne possa non essere interessata a ricoprire ruoli di vertice in un’azienda perché difficilmente conciliabili con la vita privata, ma guai a dirlo o a parlare di figli, famiglia e marito, o scatta immediatamente l’accusa di bigottismo e maschilismo, si viene subito bollati come antiprogressisti, conservatori, reazionari, nostalgici e non semplicemente come qualcuno che guarda in faccia la realtà. Sarebbe troppo volgare.

E la politica? Per carità, bisogna obbligare le donne ad occuparsi di politica anche se non ne sono interessate, imporre le quote rose, e si finisce per essere elette da qualche parte non per meriti personali ma in quanto prive del cromosoma Y. Un pensiero rivoltante. Un contenitore dove inserire puntualmente mogli, sorelle e amanti come riempi-lista. Ma questo alle signore dei diritti-a-tutti-i-costi non importa, basta la forma, anche se si tratta di una scatola vuota. L’importante è che sia rosa.

Oggi si tratta del report sul gender gap, domani sarà un’altra notizia, la sostanza non cambierà almeno fino a quando qualcuno non smetterà di rappresentare la realtà come un mondo di unicorni arcobaleno in cui i generi non esistono e tutti sono uguali.

Le più agée invocano ancora addirittura le battaglie femministe che hanno distrutto le generazioni a venire creando non uguaglianza ma confusione di genere. Quelle che hanno provato a cambiare i connotati di uomini e donne sperando in una mutazione antropologica per eliminare ogni traccia di differenza in una guerra del finto progresso che ha portato solo a un neutrale (e forse anche neurale) appiattimento.

Fra i frutti bacati di questa scellerata ideologia – per citare un recente esempio – l’emendamento presentato alla nuova legge di bilancio in tema di maternità, che permette alla gestante, previa autorizzazione medica, di lavorare fino al nono mese di gravidanza, praticamente fino al momento del parto. Una disposizione che ribalta completamente le priorità in tema di tutela della madre e del nascituro, ma che obbedisce fedelmente alla politica dell’uguaglianza di genere.

Senza dimenticare che una misura siffatta può andar bene per chi sul lavoro non ha problemi, per la consulente del centro città, per la lavoratrice della pubblica amministrazione, ma non certamente per l’operaia col contratto precario che si troverà “gentilmente” costretta a lavorare fino all’ultimo giorno per tenersi stretto il posto. Comunque, per il prossimo anno aspettiamo con ansia la possibilità di allestimento di un piccolo angolo business con tanto di conference call direttamente in sala parto, non sia mai ci si dovesse perdere una email o una riunione della massima importanza.

Il vero inganno del femminismo – come scrive Eric Zemmour nel suo pamphlet “L’uomo maschio” – è che le donne credono di prendere quello che tolgono agli uomini invece sono gli uomini ad abbandonare parti di sé.

Meglio infatti non parlare degli uomini, o meglio dei sopravvissuti all’effetto castrante del politicamente corretto, accusati d’ufficio in quanto maschi e parodiati come zotici bevitori di birra davanti alla tv, non convertiti al progresso che li vuole fieramente mammi e casalinghi.

È tutta una retorica che vive di contraddizioni, si invoca l’uguaglianza e al contempo si portano avanti battaglie come la declinazione al femminile di nomi maschili, senza rendersi conto che farsi chiamare avvocata, sindaca o presidenta suona solo come una ridicola presa in giro, come una ragione che si dà ai matti per farli tacere.

Le sbandieratrici di queste assurdità purtroppo non hanno mai ascoltato i discorsi della signora Thatcher, che saggiamente affermava: “Being powerful is like being a lady. If you have to tell people you are, you aren’t”.

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