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No, dati alla mano Johnson e gli inglesi non sono sprovveduti: pensiamo ai nostri disastri prima di criticare

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Non è una novità e pertanto nemmeno fingiamo di scandalizzarci: è nella natura umana guardare all’errore dell’altro senza vedere, per dirla con parole evangeliche, la trave nel proprio occhio. Quando però questo modo di fare diventa regola, quando la “trave” nel nostro occhio è un’emergenza sanitaria che non siamo stati in grado di gestire e soprattutto quando tutto questo diventa la base per attacchi privi di fondamento a un Paese occidentale che non solo ha performance economiche e stabilità istituzionale che noi possiamo scordarci, ma dovrebbe essere anche un nostro alleato e un possibile interlocutore per fare buoni affari con un vero free trade, è ora di mettere un po’ le cose in ordine. Non c’è nemmeno bisogno di qualificare la spregevole ondata di ilarità a cui abbiamo assistito quando si è sparsa la notizia della positività di Boris Johnson al coronavirus: è la stessa di una certa frangia politica euro-entusiasta che tifava per lo sconquasso in America dopo la vittoria di Trump e per la rovina inglese dopo l’azzardo democratico della Brexit. Uno sconquasso che naturalmente non si è verificato, con due economie che hanno stracciato per risultati quella italiana, almeno prima di questo “cigno nero” venuto a sparigliare le carte. In questa mia breve riflessione mi propongo di mettere in chiaro qualche dato sulla Gran Bretagna e sul perché prima di parlare, forse, dovremmo contare fino a mille.

Tanto per cominciare, se dovessimo dar retta agli hater di Boris Johnson, l’ex sindaco di Londra sarebbe lì come un usurpatore o, peggio, un pazzo: insomma, uno che non sa che cosa sta facendo oppure uno che sta attuando un piano di riduzione demografica degno del più cinico malthusiano o darwinista sociale. Peccato che l’opinione pubblica inglese la pensi diversamente, al netto delle fake news circolate in Italia sia prima che durante l’emergenza del virus (smontate una volta per tutte da Massimiliano Bolondi): i britannici hanno accordato, non più tardi di dicembre, una maggioranza storica al Partito Conservatore e tra il 24 e il 26 marzo, quindi in piena emergenza e con il primo ministro sotto attacco per i modi e il tipo di comunicazione scelti, i conservatori registravano un picco tra il 52 e il 54 per cento nei sondaggi, con il loro leader stabilmente in testa alle classifiche di gradimento. Quindi o stiamo assistendo a un episodio di follia collettiva oppure è il caso di andare ad analizzare i dati e di dire alcune scomode verità che in Italia, Paese malato di statalismo, suoneranno dolorose.

Il Partito Conservatore guida il Paese dal 2010 e ha trovato una Gran Bretagna provata dalla crisi, con l’occupazione che nel 2011 era sopra l’8 per cento e che oggi è attestata al 3,8, minimo storico dagli anni ’70 e con una continua tendenza alla flessione. Gli inglesi sono stati più seri di noi anche nella gestione dell’ultima recessione: il Governo Cameron (e i suoi successori May e Johnson pre-Covid-19) ha fatto sì l’austerity, ma nel senso liberale del termine, cioè tagliando la spesa pubblica e non alzando le tasse come Monti ha fatto in Italia. I risultati sono infatti ben diversi: negli ultimi anni il Regno Unito ha avuto una crescita media intorno al 2 per cento e il rapporto debito/Pil, che come in tutte le economie occidentali è esploso dopo la recessione del 2008, è intorno all’85 per cento. Non risulta quindi strano che il nuovo Cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak possa permettersi di mettere in campo misure di forte sostegno alle imprese e alle famiglie senza causare scossoni o eccessiva preoccupazione.

Al di là dei dati economici, però, dalla Gran Bretagna dobbiamo apprendere, comunque vada la curva dei contagi sull’Isola, una grande lezione. Boris Johnson e il suo Governo guidano il Paese con una maggioranza stabile e anche l’Hung Parliament sciolto l’anno scorso ha visto una legislatura sì travagliata, ma ben lontana da episodi come i ribaltoni giallo-rosso-verdi a cui abbiamo assistito qui. L’efficienza del sistema elettorale inglese, data da un misto di governabilità, rappresentanza dei territori e più facile confronto tra eletto ed elettore, in Italia è stata vagamente proposta con il Mattarellum ed è stata cancellata con la politica delle nomine e delle liste bloccate, con il risultato di una ulteriore deresponsabilizzazione della politica.

E che dire di Boris Johnson? Non deve essere poi così sprovveduto se è stato eletto per due volte in quella che si è dimostrata non solo una città globale, ma anche una sorta di fortino laburista. Colto, politicamente cinico, è sicuramente più simile al suo mito Winston Churchill rispetto a Giuseppe Conte, che qualche settimana fa farneticava di sentirsi come il grande statista inglese nella sua “ora più buia”. Johnson è riuscito a farsi eleggere leader dei Tories (e se guardiamo alla storia del più antico partito inglese sappiamo che non si tratta di sfide facili) e ha portato il suo schieramento a un risultato che non si vedeva dai tempi della Thatcher. La Gran Bretagna del 2017 (al netto del risultato in seggi) e del 2019 ha confermato una forte maggioranza conservatrice, segno che questa cultura di governo, un filo che congiunge tutte le importanti tappe dal 2010 ad oggi, tra crisi, referendum vinti e persi e in ultimo le complicate trattative per la Brexit, è stata apprezzata. E in Italia, forse, vedendo che la cultura di governo non esiste e domina la politica del “navigare a vista”, con un avvocato sconosciuto posto a capo di un Esecutivo solo perché risultato gradito su una piattaforma internet prima delle elezioni e che si è nominato “avvocato del popolo” senza peraltro che nessuno si sia mai preso il disturbo di eleggerlo, dovremmo guardare ai nostri problemi: non è tempo di scherzi, di rivalsa o di ilarità.

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