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Paola Sacchi tra ricordi e lettura del presente: una Lega spesso non compresa e sottovalutata

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Suona surreale, ma la Lega, allora Lega Nord, più che a Montecitorio o a Pontida, come giornalista politica-parlamentare, inviata di politica italiana ed estera, la conobbi a Kabul, nel 2002. Quando da Panorama di Carlo Rossella, vicedirettore esecutivo Giorgio Mulè, oggi capo dipartimenti di Forza Italia, fui inviata – poco dopo l’insediamento di Hamid Karzai e purtroppo l’uccisione a Jalalabad di Maria Grazia Cutuli del Corriere della Sera – al seguito dell’avventuroso, gran giornalista Gustavo Selva, detto “Belva”, allora presidente della Commissione affari esteri di Montecitorio, con il secondo governo Berlusconi. I leghisti con lui a Kabul, il deputato Federico Bricolo, accompagnato dall’allora direttore di TelePadania Max Ferrari, mi dettero il riconoscimento di “giornalista Braveheart“, il loro “padano” Pulitzer. Rocambolesca storia, in cui la delegazione leghista ed io casualmente venimmo accomunati, chi per un verso chi per un altro, dal fatto che non fossimo accettati al palazzo presidenziale nella delegazione ufficiale di parlamentari, la prima, da Karzai, appena insediatosi. Ai controlli venimmo bloccati, io perché giornalista e per giunta come una sprovveduta con un giornale in lingua araba sotto il braccio, gesto da automatismo professionale (i giornalisti tutti non erano ammessi), e i miei compagni d’avventura, adornati di pochette e cravatte verdi con sole delle Alpi, perché trovarono loro un coltello da caccia dimenticato nella tasca dei pantaloni.

Lunghi e rischiosi controlli al metal detector, per quel che mi riguarda anche con tentativi di carezze sul fondo schiena da parte di ragazzini, poi rivelatisi talebani. Sbottai in italiano che ovviamente non capivano: “Fa’ che ti pare ma fammi passare”. Pochi mesi dopo, al rientro in Italia li rividi nelle foto degli attentatori a Karzai al quale gli Usa inviarono a quel punto una loro speciale body guard. Alla fine i leghisti ed io entrammo. Io fregai i ragazzini talebani con uno chicchettoso pacchetto di sigarette di fronte al quale impazzirono e riuscii a portare a Panorama, seppur piccola, la prima intervista a Karzai, battendo sui tempi Time. Mulè: “Paole’, ma come cazzo hai fatto?”. Evitata da tutti i colleghi, molti di giornaloni del giro establishment, rosi da invidia perché rimasti all’asciutto, dallo stesso “Belva”, accusato di aver favorito Panorama (niente di più falso, feci rocambolescamente tutto da sola), gli unici che la sera a cena mi fecero compagnia all’Intercontinental di Abu Dhabi, da dove eravamo partiti all’alba con un C130 dell’Aeronautica militare, furono i leghisti, ovviamente loro, in quanto tali, evitati dai giornaloni. “Ue’ giornalista per noi davvero Braveheart! Onorati di cenare con te”. Non dimenticai mai la sincera solidarietà e anche l’ammirazione, persino eccessiva, per me “la romana”, anche inviata “legologa”, quel 14 febbraio 2002 da parte dei miei casuali compagni d’avventura in cravatta e pochette verde con sole delle Alpi. Mi imitarono “Umberto” quando telefonava a loro e a tutti alle quattro del mattino. La parola più carezzevole del fondatore, allora ancora padre-padrone della Lega era “pirla”. Imitazione esilarante. Lì realizzai meglio che la Lega non fosse una barzelletta di barbari ma una vera comunità, partito sul serio, forza di popolo, strutturato in modo non leggero ma pesante, sullo schema del Pci.

Da Bossi a Salvini, l’allievo che ha superato il maestro, facendo della “piccola” Lega Nord il primo partito italiano con la Lega Salvini premier, credo che il pregiudizio anti-leghista, quasi a prescindere, da parte di establishment, giornaloni, certa élite confindustriale e finanziaria, allora come oggi rischi di minare alle basi la stessa democrazia italiana. Il tutti contro Salvini sul quale è nato il governo Conte 2, sul quale è stata impostata per paura la campagna elettorale in Emilia Romagna dalla sinistra, ne è l’espressione più potente e plastica. Dalla quale emerge solo paura di perdere un sistema di potere bloccato da più di mezzo secolo in E-R. Paura di una briscola alla quale potrebbe fare da apripista la batosta data dall’Umbria alla sinistra, perché la molla vera più che “Sanitopoli” fu la voglia di ricambio, aria nuova.

Insomma, il copione della sinistra è sempre lo stesso, identico a quello con il Cav: coazione a ripetere nel non accettare a prescindere le regole dell’alternanza, quasi l’esistenza stessa dell’avversario, considerato da sempre alla stregua di un nemico e per giunta “abusivo”. Eppure, la Lega e la sua diabolica, da Bossi a Salvini, capacità manovriera la dovrebbero ben conoscere da quasi 30 anni. “Umberto” e “Bobo” Maroni fecero impazzire con le loro sceneggiate del doppio gioco la Prima Repubblica in punto di morte. Ne fece le spese un irrisolto Mino Martinazzoli spiazzato a semi-accordo in corso con “Bobo”, ambasciatore di Bossi, dallo stesso Senatùr che intanto cannoneggiava da Via Bellerio: no ai democristianoni, ci alleiamo con Berlusconi.

Ne ha pagato le spese ora Di Maio, uscito con le ossa rotte dall’aver seguito il Pd nel Conte 2. Ne ha fatto le spese il Pd che pensava non presentandosi nella Giunta per le immunità al Senato di fregare i leghisti. Che invece hanno spiazzato i Dem, mandando loro stessi, salvo voto in aula, a processo per la Gregoretti il loro leader “capitano” Salvini. Se un tempo erano “Umberto” e “Bobo” a far impazzire il Palazzo e la sinistra, ora c’è la coppia ancora più pericolosa Salvini – Giorgetti. Sempre con lo stesso schema, rivisto e aggiornato, del diabolico gioco delle parti. Con giornaloni e sinistra che ogni volta ci cascano. Solo un neonato, per dire, può pensare che “Il Gianka”, potente da sempre numero due del “Capitano”, prima ancora dei leader della Lega di Bossi, il fondatore, e Maroni, potesse non conoscere in anticipo dalle Alpi, dove era in vacanza, la mossa spiazzante davvero alla Bossi del Papeete. Giorgetti sornione ai giornalisti: “E che ne so? È più di un mese che non sento Matteo”, faceva solo sorridere chi sa un po’ di Lega.

Intanto, Salvini aveva già messo nel conto, staccando la spina al governo giallo-blu, anche che le elezioni non gliele avrebbero date, come è accaduto. Ma aveva anche un’ipotesi B, quella che si verificò. E cioè che almeno sotto Ferragosto li avrebbe costretti a metter su un governo papocchio tale che sarebbe stato sempre più pericolante. Ovvio che i suoi avversari avrebbero preferito che lui staccasse la spina dopo le Europee, perché così avrebbero sistemato le cose più comodamente e non, impazzendo, loro sì, sulla spiaggia ferragostana. Le elezioni in Emilia Romagna, con un Bonaccini che, incalzato dalla grintosa Borgonzoni, sembra sempre più confinato tra i pali del portiere alla difesa, saranno il vero punto di svolta. Ma poi verrà meno o peggiorerà il pregiudizio anti-leghista o ci sarà ulteriore accanimento, fino a minare le basi stesse della democrazia? In realtà il Mojito di agosto lo bevvero la sinistra e l’establishment. Vedremo se il voto in Emilia farà passar loro la sbornia del tutti contro Salvini.

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