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Preso Battisti: i parenti delle vittime sono rimasti umani, i tifosi del terrorista non lo sono stati mai

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Che differenza, di civiltà, di umanità tra i parenti delle vittime di Cesare Battisti e la canea che per quindici anni lo ha esaltato come rivoluzionario, combattente e poi scrittore “di successo”, perché non c’è chi onori il soldo come chi ne ostenta disprezzo. Il figlio del macellaio Lino Sabbadin, Adriano, col suo faccione sanguigno, gli occhi increduli che tacciono e faticano a non piangere. Il fratello dell’agente Andrea Campagna, Maurizio, che scende a mettere un fiore davanti alla lapide sotto casa. I congiunti del maresciallo Antonio Santoro, e il figlio paralizzato del gioielliere Pierluigi Torregiani, Alberto, centrato, per crudele fatalità, da una pistola del padre che, aggredito dal commando di Battisti, tentava di difenderlo: hanno aspettato 40 anni, sono stati presi in giro in tutto questo tempo, ma dalla bocca di nessuno sono mai uscite parole truci, volgari, vendicative; e, anche oggi, nessuno sbraca, nessuno pretende chissà quale pena esemplare, nessuno inneggia alla tortura, alla giustizia sommaria: tutti si limitano a dirsi contenti, “speriamo sia la volta buona”, dicono ancora, con una sorta di ritegno: non sono del tutto convinti, e dagli torto se puoi, che questa volta giustizia verrà fatta, che davvero l’aguzzino dei loro cari finirà dove deve finire. In una cella. Siamo in Italia, dove l’impossibile è l’ipotesi spesso più probabile: fosse mai che questo a un certo punto esce in permesso premio e te lo rivendono come opinionista, esperto, magari in politica (non sarebbe la prima volta)…

E dire che se Battisti è ancora vivo, se la prospettiva è quella di una detenzione più o meno lunga, ma, almeno teoricamente, non irreversibile, dopo 37 anni di protezioni scandalose, è anche per merito loro, dei parenti delle sue vittime: a un certo punto si era messa di mezzo la criminalità organizzata, si era offerta di risolvere l’annosa faccenda a modo suo: paisà, 48 ore e di quello non troveranno mai nemmeno le ossa. Chi poteva disse no, e non era così scontato.

Alberto Torregiani, che aveva perso la famiglia d’origine e da Pierluigi era stato adottato, si ritrovò orfano per la seconda volta a 15 anni; mi racconta un episodio grottesco: una volta decide di andare ad una conferenza di Valerio Evangelisti, lo scrittore noir rivoluzionario che di Battisti è amico e difensore: ha scritto prefazioni ai suoi libri, ha vergato pamphlet in sua difesa insieme ai colleghi Wu Ming e Giuseppe Genna, insieme hanno steso il manifesto in cui definivano Cesare Battisti una specie di martire romanziere, firmato da 1500 incauti. Un giorno Alberto, stufo di sentire parlare di se stesso a sproposito, a bordo della sua carrozzina va alla presentazione di Evangelisti, va a sentirlo parlare di sé: e l’altro neanche lo riconosce, anni che parlava di lui, di Battisti, delle sue gesta, e non sapeva riconoscere una sua vittima. Alberto è quello che più si è esposto, che più ha denunciato ingiustizie, protezioni e miserabili falsità in favore del terrorista, lo conosco da anni, ma non l’ho mai sentito, neppure in privato, tradire odio: una profonda, ferita tristezza, questo sì, una malinconia che non può guarire, e che a tradimento si insinua fra le crepe di una forza d’animo disperata. Aveva quindici anni quando si risvegliò sul letto di ospedale con un padre e due gambe in meno: gli sono venuti i capelli bianchi, è segnato, tutta la sua vita è stata comprensibilmente solcata da un desiderio non di rivalsa, ma di elementare, umanissima giustizia. Sul sito di un giornale antagonista ormai scomparso ai bei tempi degli appelli e delle fughe, si potevano leggere commenti di questo tenore: “Che sfigato Torregiani, paralizzato da suo padre, gli ha sparato suo padre, ben gli sta, onore al compagno combattente Cesare, corri Cesare corri, abbatti anche i parenti, finisci il lavoro”. Ma Alberto, come gli altri colleghi di ingiustizia e di dolore, pur sapendo tutto questo, ha sempre reagito con un sorriso dolce e ferito di commiserazione. Loro, sono quelli rimasti umani. I tifosi del terrorista, i soliti che di questo slogan si riempiono la bocca, non lo sono stati mai.

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