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Se le ragioni del migrantismo prevalgono su quelle del femminismo

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C’è da stupirsi della notizia, ripresa dal solo Daniele Capezzone su La Verità, dello stupratore recidivo del Bangladesh assolto da un tribunale francese perché “non in possesso dei codici culturali”, con ardito capovolgimento della massima romana “ignorantia non excusat”? No, c’è se mai da prendere atto di un dato di fatto più generale: lo scollamento completo, non più sanabile, fra predica e prassi, l’ipocrisia acquisita fra gli ideali sbandierati e la loro applicazione: nei giorni delle liturgie a difesa delle donne, scarpe rosse, rosse panchine, rosse le vetrine dei libri del femminismo antagonista d’antan, rossi i cortei pieni di rosse parole fasulle, rossi i segni da pellerossa sulla faccia, un richiedente asilo può farla franca dopo avere violentato due minorenni del Paese che lo ospita, tenute in fama di “puttane”, di prede. Le ragioni del migrantismo prevalgono completamente su quelle del femminismo inteso come tutela.

Le società scelgono, impongono l’agenda ai propri valori figli del tempo: il tribunale manda libero lo stupratore introdotto ma non si registrano opposizioni neppure dal mondo femminile e femminista: proteste sì, ma di quelle paracule, opportunamente vaghe, l’individuo personalmente responsabile, lo straniero orco esorcizzato a mezzo di anatema globale sul mondo maschile, sul maschio come genere, un dire tutto per non dire niente. In questo senso il tribunale sviluppa una giurisprudenza figlia del tempo, dello spirito del tempo e chiude il cerchio del cortocircuito: nessuno tocchi la donna, ma se è il migrante a toccarla, cioè a violarla, ce ne facciamo una ragione perché nessuno deve toccare il migrante. Questione di “codici culturali”.

Più in generale, questo comporta che la esplicita rinuncia dell’Europa sedicente civile all’idea di istituzioni salde, di democrazie non autoritarie ma autorevoli in grado di applicare i princìpi e i presìdi di garanzia e di sicurezza. La impunità etnica, la indulgenza plenaria, da foro interno, allo stupratore venuto da lontano, il cui livello tribale viene considerato scriminante, è aberrante ma non specifica, ma si riverbera su contesti più ampi: c’è una sorta di stanchezza, quasi la percezione dell’impossibilità di arginare la deriva dell’imbarbarimento da qualsiasi fonte. Il vigliacco di Castiglion delle Stiviere, vicino Mantova, che ha dato fuoco alla sua casa bruciando vivo suo figlio, dopo avere cercato di travolgere anche l’altra figlia, solo per punire la moglie che lo lasciava, era notorio come soggetto pericoloso: ma la disperazione della donna, la quale aveva più volte invocato l’aiuto delle istituzioni, si è infranta contro un pilatesco ordine di allontanamento che il mostro non ha pensato neppure per un momento di rispettare. C’è una inquietante frequenza di abusi, di omicidi su ex compagne, che derivano dal ritardo costante se non addirittura della rinuncia da parte degli organi di tutela ad applicare le misure opportune. Qui il colpevole è il maschio carnefice, ma il responsabile è il giudice o l’incaricato della pubblica sicurezza che ha sottovalutato, che non ha provveduto o ha punito in modo troppo blando.

Stanchezza pubblica statale si sposa a stanchezza pubblica civile: a Genova è esploso il caso di un giovane impresario, di buona famiglia, accusato di comportamenti brutali su donne prima lusingate, poi torturate e abusate: la classica storia che “sapevano tutti in città”, però ci è voluto un uomo, il musicista Federico Fiumani, leader dei Diaframma, per tirar via il velo di indifferenza. Gli altri a quanto pare tutti, tutte stretti nel giro hipster dell’attendismo opportunista e cinico, prima o poi qualcuno ci penserà, meglio accusare l’uomo occidentale in quanto tale e tirare a campare. Nelle loro messe suonate e cantate, le donne in favore delle donne si scagliano invariabilmente contro il maschio di prossimità, contro i suoi abusi familiari o amicali: mai, neppure una volta, neppure una voce, contro l’oppressione islamista sulle donne, sui loro corpi straziati, sulle loro menti costrette, mai contro i migranti “sprovvisti di codici culturali”, mai sulla tragedia infinita delle troppe Asia Bibi, mai sui supplizi di giovani perdute sì, intossicate sì, ma inghiottite da morti orribili, cannibali ad opera di ospiti spesso richiedenti asilo.

C’è ancora una contraddizione, sommersa e insieme somma, nella pronuncia a suo modo illuminante del magnanimo tribunale francese: il migrante stupratore è stato assolto perché “sprovvisto dei codici culturali”, cioè del sistema di valori di convivenza civile generalmente accettati: ebbene, sono proprio quei valori che il multiculturalismo spinto obbliga a superare, a travolgere in favore di una radicale quanto confusa ridefinizione dei valori stessi e delle loro priorità; in altre parole, si assolve il colpevole perché non conosce le norme della società in cui si trova ad agire (ad agire malissimo), ma allo stesso tempo quelle norme, che pongono limiti considerati inviolabili, vengono contestate a beneficio di succedanei tuttora da precisare, fluidi fino all’ambiguità: i “codici culturali” oggi sono quelli del rispetto a tutto tondo, del politicamente corretto che vieta pensieri, parole, atteggiamenti, comportamenti e che, nello specifico, non esita a presumere vittima qualsiasi donna si definisca tale, anche senza prove come nella pagliacciata del metoo: un approccio fanatico che all’occorrenza arriva al punto di invertire l’onere della prova, cioè a travolgere uno dei capisaldi della giustizia dei tempi moderni in tutti i Paesi. Ma per l’appunto qui deflagra la contraddizione, micidiale: se agli indigeni è ormai proibita la più pallida avance, se leggi e conformismi impediscono di vedere nella donna un elemento di seduzione e di desiderio, agli allogeni è permesso, in nome della legge, di considerarle “tutte puttane”, e di agire di conseguenza. Una tutela all’apparenza blindata, i cui codici culturali sembrerebbero indiscutibili, finisce in schegge di vetro di fronte all’esigenza di tutelare la mancanza stessa, ovvero la negazione brutale, di quegli stessi codici. Ma se il “buon” selvaggio i codici non li conosce, e se il multiculturalismo invece li contesta, allora quali sarebbero i codici che il migrante dovrebbe conoscere – e che il giudice dovrebbe applicare, per fare giustizia?

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