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Recensioni. Il visionario Sorokin, tra libri (e uomini) che bruciano in “Manaraga – La montagna dei libri”

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“Un libro è un mondo intero, che se n’è andato per sempre. In un certo qual modo posso definirmi un romantico.”

È il 2037 e l’epoca di Gutenberg si è conclusa con il pieno trionfo dell’elettricità, la carta stampata è una delle vittime della postmodernità, i libri non si stampano più, sono ridotti a cimeli e relegati in musei e biblioteche, la letteratura contemporanea non ha più bisogno di carta, vive ormai nello spazio di un ologramma, ad essere stampate sono ormai solo le banconote.

Questo il futuro (non troppo lontano) disegnato da Vladimir Sorokin – esponente del concettualismo moscovita, autore considerato liberale nel panorama della letteratura russa postmodernista – nel suo ultimo libro, Manaraga – La montagna dei libri, appena pubblicato in Italia da Bompiani.

Il protagonista di questo romanzo distopico è Géza, un ungherese nato da una famiglia di ebrei bielorussi e tartari polacchi, di professione chef, o meglio book’n’griller, in un mondo dove l’ultima moda con cui si sollazzano i bohémien è quella di organizzare costose cene con piatti che prendono vita dalle fiamme derivanti dal rogo di importanti libri, in particolare di ambite prime edizioni.

“Possono ardere a fuoco lento o avvampare in un’unica fiammata, con la conseguente levitazione dei fogli che poi aderiscono alla carne o volteggiano sopra la testa dei clienti” spiega Géza, mentre racconta la nascita del fenomeno del book’n’grill, dapprima clandestino nel periodo che segue una guerra di integralismo religioso, poi declinato in moda deluxe e infine tramontato con la velocità che contraddistingue la caduta di ogni fenomeno moderno una volta divenuto fenomeno di massa, di quella “cara borghesia senza pretese, che segue la moda in automatico”.

L’uomo infatti, suggerisce Sorokin, tende sempre la mano verso il frutto proibito, motivo per il quale, una volta superata la carta stampata fa la sua comparsa il book’n’grill, inizialmente dichiarato reato contro la cultura e la civiltà dalla parte più illuminata dell’umanità, la quale “temeva che, senza i libri nei musei, l’Homo sapiens si sarebbe trasformato definitivamente in una scimmia con l’i-Phone nella zampa”, concetto dal quale l’autore lascia trasparire tutto il suo spirito conservatore ed elitista.

La parabola della Cucina book’n’grill parte da una fantasia di piatti prelibati come Šašlik di storione con L’idiota, Gamberetti con Zio Vanja, Carrè di agnello alla Don Chisciotte, Bistecca di tonno alla Moby Dick, Polmoni di vitello con La montagna incantata, prosegue poi con l’organizzazione di eventi di lusso come un “grill party con le opere complete di Ian Fleming per la famiglia di un miliardario americano fissato con James Bond”, fino a giungere ad una fase discendente in cui ad ordinare roghi di libri sono sempre più le masse, i parvenu, momento in cui la Cucina si avvia verso una deriva da fast food, con cuochi che arrostiscono notte e giorno triglie alla Baricco. Più in basso di Baricco evidentemente non c’è nulla, chiarisce infatti lo chef Géza che “una volta nella vita è concesso arrostire anche sulle banalità, purché non si tratti di letteratura mediocre”.

Dal fenomeno del book’n’grill prende altresì corpo una vera e propria forma di autocrazia, che l’autore definisce la “Cucina”, una sorta di setta della quale fanno parte gli chef book’n’griller di prestigio internazionale, con una sua tradizione, un rituale, una gerarchia, finanze proprie, un servizio di sicurezza per tenere fuori i cuochi clandestini (inseriti nell’elenco dei terroristi internazionali). Solo gli chef che fanno parte della Cucina sono veri professionisti, in grado di leggere correttamente (per leggere si intende cucinare con i libri), unici depositari dei segreti di questa nuova arte.

La Cucina diventa metafora della società moderna e dei conflitti che in essa si insediano continuamente, in particolare fra culture e paesi diversi. Ne escono con le ossa rotte tedeschi, latinos ed italiani, i cuochi scorretti del gruppo (fra cui Antonio, maestro di scaloppine alla Tomasi di Lampedusa) che arrivano allo scontro con la Cucina, creando una società segreta dedita alla falsificazione di rare prime edizioni che ha la sua sede sul monte Manaraga, negli Urali Settentrionali; va meglio agli svizzeri, abitanti di una sorta di “villa dell’Europa”, e ai bavaresi, definiti “tipi svegli e decisi, tutti birra e stinco di maiale” immersi in un Medioevo illuminato; poco male per gli americani, che semplicemente “non vanno più di moda”, mentre si intravede nell’istituzione della Cucina l’autorità della Russia moderna: “Non si frega la Cucina – dice forte Vladimir, e poi grida – La Cucina è forte! La Cucina è forte, ripetiamo tutti insieme”.

Manaraga è un grande affresco del mondo contemporaneo, c’è la critica ai radical-chic, la paura di un futuro nero esorcizzata con i divertissement di massa, l’uomo – “una corda tesa tra la bestia e il superuomo” – che non è in grado di superare sé stesso ma viene superato da pulci intelligenti che ne guidano i pensieri e macchine molecolari, un uomo che brucia vecchie banconote di carta come rituale, come sacrificio di ringraziamento al mondo digitale.

Sorokin fa un uso virtuoso del linguaggio, destrutturandolo fino a ridurlo all’essenziale, a quei concetti universali che mutano col mutare dell’esperienza umana che l’autore tende a mettere al centro della sua narrazione, superando gli oggetti descritti con le loro stesse descrizioni. Emergono inquietudine e paura per il futuro, per il cambiamento, anche quando il nuovo rappresenta il superamento di un vuoto, per usare le parole di Carl Schmitt.

L’autore è un uomo lontano dal “paese reale”, la sua prosa visionaria si allontana drasticamente da qualsiasi forma di realismo, e proprio tale distanza gli permette di cogliere i sentimenti che pervadono l’uomo contemporaneo, lo smarrimento, i capricci del singolo che divengono tradizioni di massa, il desiderio di trasparenza e chiarezza o almeno l’illusione di queste, oggi avvertite come necessarie da parte di quell’uomo che teme i mondi chiusi mentre un tempo era attratto dall’occulto, oggi di interesse solo degli emarginati.

In Manaraga, insieme ai libri e alla cultura di un mondo che non tornerà, a bruciare è l’uomo stesso sulla sua graticola interiore.

Emblematica, fra i passaggi finali, la domanda posta allo chef da parte di una ricca famiglia ebraica in viaggio per una “crociera interminabile” su un lussuoso yatch: “Mi dica Géza, di notte la cenere dei libri che brucia non le rimane sulla coscienza?”.

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