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“500 giorni. Napoleone dall’Elba a Sant’Elena”

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500 giorni trascorrono tra la caduta del Primo Impero Francese e l’arrivo a Sant’Elena, “piccola isola”, dell’uomo che aveva dato mente e braccio al più profondo rivolgimento che l’Europa abbia mai conosciuto. 500 giorni che vedono altrettante tappe di un’epopea che è al fondamento della nostra modernità: l’addio alle aquile, il primo esilio, il ritorno fulmineo da Golfe Juan, Waterloo, e l’esilio verso la roccia atlantica. 500 giorni che rappresentano un curioso “bis”, una chiamata sul palco che la Storia concede al suo primo attore, in uno slancio di munificenza, o forse di crudeltà, assolutamente inusuale. Napoleone – l’Imperatore – è sconfitto fin dalla prima pagina del libro. Ad ogni riga, ad ogni parola, sappiamo che tutto ciò che accade dopo Fontainebleau, è un “di più”, messo tra le ruote del destino dalla volontà titanica del grande Corso.

Due sono i momenti centrali, sui quali si sofferma opportunamente la penna di Migliorini e che nella storiografia passano invece inosservati: i due viaggi – da Parigi all’Elba e dall’Elba a Parigi – durante i quali Napoleone può toccare con mano, e non per l’interposta persona di Fouchè e delle sue spie, l’umore della Francia e dei suoi contadini, che gli hanno offerto fiumi di sangue nei vent’anni precedenti. Il risveglio è orrendo. “A Orgon, poco dopo Avignone, gli abitanti del paese tentano di assalire la carrozza dell’Imperatore: ‘Aprite le porte! Tiriamolo fuori! Impicchiamolo! Alla ghigliottina'”. Così dopo l’abdicazione. Ma neanche “il volo dell’aquila”, nonostante la retorica, è trionfo di popolo; piuttosto d’esercito. I francesi gli fanno credito, fanno credito al suo genio, ma dopo il 1814 con prudenza, pretendendo gli interessi. Non gli perdonano di non aver saputo in tanti anni compiere la missione che gli avevano affidato: portare a termine ciò che Mirabeau aveva iniziato, pacificare la Rivoluzione, garantendone le conquiste. E tutta la stupidità degli esiliati e del Duca d’Artois non erano riusciti a convincerli che il tributo di sangue, lo spirito di Valmy fosse strettamente necessario, quando tutto sommato il bonario Luigi XVIII non aveva osato riportare le lancette indietro al 13 luglio ’89. Napoleone, forte del suo intuito della Nazione, comprende benissimo i termini della partita e tenta il disperato colpo di presentarsi finalmente come monarca costituzionale e liberale, controparte affidabile per le potenze straniere, ma molto più per i suoi sudditi stanchi di guerre e coscrizioni. Un colpo che non è nella sua natura, che non riesce congeniale alla sua arte e che fallisce nello scarso sostegno al nuovo ordine, ben prima della fallita carica di Mont-Saint-Jean. Resta il dubbio: se, invece di proclamarsi sovrano moderato, avesse scelto la strada della dittatura giacobina, le giornate del ’92 si sarebbero potute ripetere? Stando all’analisi di Migliorini, assai documentata, non si vede come: mancavano le forze, mancavano gli interessi.

Rimane, innanzi a tutto questo, “il prodigio dell’invasione della Francia da parte di un solo uomo” che pur nell’ironia dell’avversario, di Chateaubriand, è frase che rende testimonianza alla grandezza di un individuo straordinario che reclama la scena mondiale ancora una volta a dispetto di tutti, con la forza del proprio solo nome. Più di cent’anni di catastrofi dovevano passare, prima che il compito universale che gli era precipitato sulle spalle vedesse compimento in Europa; prima che la democrazia liberale scalzasse – speriamo definitivamente – il mostro dell’organicismo dall’altare del dio-potere.

Pure, a guardare indietro è su quel gualcito bicorno che si ferma incredulo il nostro sguardo, alla vista di chi seppe invertire le ruote dell’umanità e alla ricerca di un esempio da seguire per continuare sulla strada della modernità.

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