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Il Primo Re: la fondazione di Roma secondo Matteo Rovere

Cos’è — o cosa fu — Roma? Alla storia della Città Eterna si può associare uno sterminato catalogo di simbolismi. Tuttavia, senza avanzare alcuna pretesa di univocità, l’u(r)bi consistam si può riassumere con relativa concisione. Esso rimanda all’umana facoltà di sublimarsi nell’intelletto, sottraendosi autonomamente al sottosviluppo e alla barbarie attraverso la civilizzazione e l’esaltazione dell’ingegno liberale. È un’idea che ha assunto forme e rivendicato luoghi molteplici: la Grecia delle póleis, la Britannia arturiana, la Venezia della Serenissima, l’America della città sulla collina. E la Roma dei sette colli, appunto.

L’uomo è un animale innaturale; formato nella libertà assoluta, pare de-siderare come un pozzo senza fondo qualcosa che si può trovare solo in cattività. Un “qualcosa” che può costituire sia il soggetto che l’oggetto di un racconto per immagini, ma solo per mezzo di artifici metaforici e/o di rappresentazioni parziali, mai appieno e definitivamente. Il Primo Re, di Matteo Rovere, parte da questa — letteralmente — drammatica consapevolezza (si veda la citazione in esergo ai titoli di testa: “Un Dio che può essere compreso non è un Dio”) per costruire l’esplicitazione di un testo implicito, quello che palpita nel cuore figurativo di ogni mito delle origini. Per farlo con coerenza ed efficacia, il team creativo compie una sequenza sbalorditiva — specie per il “solito” cinema all’italiana — di scelte improntate a un cinema risolutamente radicale.

Anzitutto niente rigore filologico rispetto alla narrativa tradizionale: via Rea Silvia e le sue sbandate, niente figli della lupa, niente voli d’uccello e solenne aratura dei confini non pervenuta. Del resto, se dobbiamo “attenerci ai fatti”, per prima cosa occorre evitare di riproporre gli abbellimenti mitografici tramandati ai posteri con evidenti finalità apologetiche. I dialoghi sono in protolatino, sottotitolati, perlopiù telegrafici, con la declamazione che passa dalle grida bestiali ai mormorii pressoché senza stadi intermedi, quasi come a teatro. Le “c” e le “g” suonano sempre gutturali, mentre la “v” si dice “u”, com’è foneticamente corretto. Ce n’è abbastanza per mandare in bambola l’italiano medio, avvezzo a tutt’altra modulazione di registri, ma mica finisce qui: le tribù del Lazio arcaico appaiono immerse in un cuore di tenebra fatto di sporcizia, calamità naturali, violenza indiscriminata e cupezza disperante.

L’immaginario cui ci si rifà, in altre parole, è lontanissimo dai modelli estetici più frequentati dal grande pubblico e dalle grandi produzioni cinematografiche in tema di romanità e dintorni. Non si vedono elmi a scopettino né pettorali tirati a lustro, anzi; non mancano brutture assortite tra deformità, denti marci e occhi guerci. Visivamente siamo in zona Valhalla Rising, come è stato detto da più parti, ma anche molto vicini ad Apocalypto (fatta la tara al diverso ecosistema d’ambientazione). La fotografia sfrutta al massimo le potenzialità del digitale e cattura raggi di luce a grappoli, tra la fitta vegetazione che fa da sfondo all’80 per cento del film, scolpendo forme tra giochi in chiaroscuro orlati da contorni di nitidezza impressionante, spesso con montaggi serrati ma sempre con parsimonia di totali (rare e brevissime) e in generale di seconde unità. Se non ci fossero movimenti di macchina impostati molto diversamente, verrebbe da pensare al Terrence Malick de La Sottile Linea Rossa.

L’organizzazione delle riprese dà l’impressione di voler ammiccare a precise esigenze di senso. Siccome qui Romolo e Remo personificano due archetipi complementari e contrapposti, il monopolio della scena da parte dell’uno o dell’altro coprotagonista si contraddistingue in base alla diversa composizione del quadro d’insieme. Romolo riproduce le valenze simboliche di un ibrido tra Mosè e Caino; è un uomo di fede, custode (occasionale) del fuoco sacro, nonché un capopopolo bramoso di stanzialità. Remo, viceversa, dei due è quello battagliero, un po’ Prometeo e un po’ Abele, più pastore che agricoltore. E cacciatore: in una scena madre lo si vede abbattere un cervo enorme e darlo in pasto ai derelitti che, in rocambolesca fuga da Alba Longa, seguono i due fratelli verso la riva sinistra del Tevere. A Romolo Dio “serve”, a Remo no, ed entrambi si esprimono apertamente reciproco dissenso nel crescendo di ostilità che li conduce al loro arcinoto destino. Due diverse visioni delle cose e del mondo, che nel film impongono angolazioni e prospettive ben distinte all’occhio della telecamera. Remo, che da solo imperversa nei tre quinti centrali della proiezione, è oggetto di un’indagine “personale”, imperniata sull’individualità, spesso con camera a mano. Romolo, al contrario, entra quasi sempre in scene di gruppo e concentra gravitas nei dolly e nel girato dalla media distanza (specie nel finalone). Sembra quasi che il “Dio” narrante si avvicini a chi lo respinge e mantenga le distanze da chi gli crede.

Riuscirà Matteo Rovere a rifondare l’impero (cinematografico) romano partendo da questa produzione, piccola e poco propensa a compromessi come lo fu il primo nucleo insediativo dell’Urbe? Difficile dirlo; specialmente dati i gusti del pubblico d’oggi, più orientati all’intrattenimento puro che alle uscite superimpegnate (per quelle ci sono le serie tv). Per il momento è già una piacevolissima sorpresa veder arrivare un bel drammone sui dissidi fraterni e di gruppo, spettacolare e con attori sempre in parte, proprio dalla direzione più inattesa.

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