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“La capitale” di Menasse: amara parodia di una Ue sul viale del tramonto

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Un grosso maiale si aggira per le strade del centro di Bruxelles – l’immagine è felliniana, onirica e nasce dalla penna di Robert Menasse, autore de La capitale (Sellerio) – si tratta di un essere ingordo, il manifestarsi di una impurità nel cuore dell’Europa.
L’UE è agli sgoccioli, secondo le indagini dell’eurobarometro la fiducia nei confronti delle istituzioni europee è ai minimi storici, l’opinione pubblica – ammesso che se ne interessi – ha un’immagine negativa della cultura europea, la corporate image delle sue istituzioni è colata a picco.
Mancanza di legittimazione democratica, proliferazione della burocrazia, regolamenti folli. Questa la percezione dall’esterno dell’UE, durante la più grave crisi registrata dalla sua fondazione.
La capitale è la triste parodia di una UE sul viale del tramonto, di una città – Bruxelles – dove non esistono europei ma tutt’al più gente che vuole far carriera nelle istituzioni europee, volgari burocrati, soggetti che identificano i colleghi solo col piano in cui lavorano, un esercito armato di trolley e ventiquattrore che confabula in un gergo babelico di idee che non esistono, dove corrono vagoni della metropolitana che trasportano apatia e rassegnazione alla vista dell’ennesima manifestazione della lobby dei vegetariani.
“L’Europa è un cantiere che disorienta” scrive Menasse, non risparmiando nessuno in quest’Unione senza più stelle. Ci sono i grigi enarchi francesi con aria ascetica, super snelli e dagli abiti poco appariscenti, l’olandese che conta ancora in fiorini olandesi, lo svedese luterano irriducibile stacanovista, i tedeschi che non riescono a mettersi d’accordo sul se la Germania debba esercitare la sua supremazia in Europa “con maggiore orgoglio” o “con maggiore umiltà”, la funzionaria greca che ormai ha perso credibilità con la quasi-bancarotta di stato e viene relegata a capo della commissione Cultura, infine l’italiano dai modi baroccheggianti, ufficialmente capo di gabinetto del presidente della Commissione europea, ma in realtà più preoccupato di recitare il ruolo di discendente di un’antica famiglia della nobiltà italiana (abito azzurro, pochette gialla, gilet rosso con pancia in evidenza) che apre le conversazioni in greco antico gesticolando come un direttore d’operetta e sventolando la mano con anello sigillo. Tutti signori di un mondo ormai sommerso, tutti principi di Atlantide.
Si tratta di soggetti senza un interesse comune a cui guardare, lobbisti senza idee a cui interessa solo vendere e comprare e fingere di credere in quello che vanno dicendo perché non hanno imparato a dire niente di diverso per guadagnarsi lo stipendio, think tank in cui l’unico mantra con cui si arena ogni discussione è la “mancanza di crescita”, indicata come causa del successo del populismo di destra, da risolvere incentivando la liberalizzazione.
Nell’ironica fictio di Menasse la Commissione europea prova ad aumentare il proprio appeal in occasione del cinquantesimo anniversario della sua nascita pensando di organizzare una manifestazione che metta al centro la garanzia del riconoscimento dei “diritti umani per tutti” dopo Auschwitz, ma come nella realtà il fallimento è dietro l’angolo.
Menasse coglie bene il sentimento popolare che corre in tutta Europa, l’ormai diffuso disinteresse della gente comune per quella enorme massa di diritti di cui non ha neanche il tempo di godere, rincorsi ormai solo da benpensanti rivoluzionari da salotto, gli unici ancora interessati a quote rosa e idiozie varie, mentre i democratici cui l’autore dà voce invocano la chiusura dei parlamenti nazionali.
“Questa è l’idea! Il superamento del sentimento nazionale” ribadisce la Commissione, provando a liberare sé stessa dall’immagine di un’istituzione di burocrati fuori dal mondo e sancire il proprio ruolo di depositaria della lezione impartita dalla storia e garante dei diritti umani in una prospettiva di evoluzione postnazionale e comune, sortendo in tal modo l’effetto opposto e guadagnando la potenziale furia di capi di stato e di governo – soprattutto dei paesi più piccoli – che, alla sola idea che la propria nazione e la propria identità nazionale vengano messi in discussione, sono pronti a minacciare appelli in tutti i paesi ad opporsi all’Europa per difendere la propria legittimità.
Una volta appurato il fallimento del progetto, la domanda risulta quindi retorica: “Qual era l’obiettivo? Raccontare agli euroscettici e agli avversari della UE quanto era stata bella la fondazione della CECA? Come a volersi congratulare con un nonno affetto da demenza senile perché un tempo era ancora in sé”.

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