Giustizia

Il 12 giugno il voto sulla giustizia

Cara Littizzetto, leggi qui se vuoi capire perché votare ai referendum

Giustizia

di Paolo Becchi e Giuseppe Palma

Quando mancano meno di due settimane al 12 giugno, il silenzio nei talk show, con poche eccezioni, continua a regnare sovrano su un tema importante ma difficile come i referendum sulla giustizia; ben cinque quesiti abrogativi che – se approvati dal popolo – cambierebbero il volto della giustizia nel nostro Paese.

Si vota nella sola giornata di domenica 12 giugno, dalle 7 alle 23, una decisione del governo discutibile, anche perché durante gli ultimi due anni, causa la pandemia, le tornate elettorali si son tenute sempre su due giorni, domenica e lunedì. È probabile che la corporazione della magistratura, che ha ottime sponde sia nel governo che in parlamento, abbia fatto pressione sull’esecutivo affinché il referendum si tenesse in un solo giorno e peraltro a scuole chiuse, per rendere difficile il raggiungimento del quorum. Infatti, affinché il referendum abrogativo sia valido, è necessario che si rechi a votare il 50% più uno degli aventi diritto al voto. Fino alla scorsa settimana, se i sondaggi fossero veritieri, solo il 30% degli italiani sarebbe disposto a recarsi alle urne; quindi, è necessario che ciascuno dei sostenitori del Sì porti al seggio almeno un elettore che diversamente si sarebbe astenuto.

Come abbiamo già chiarito nei nostri precedenti articoli, noi siamo per il Sì a tutti e cinque i quesiti referendari. Le ragioni le abbiamo spiegate nel nostro ultimo libro Referendum Giustizia: tutte le ragioni per votare Sì, edito da GpM edizioni. Nei giorni scorsi ci siamo occupati su questo sito su due quesiti in particolare, quello sull’abrogazione della legge Severino e quello sui limiti agli abusi della custodia cautelare; oggi vogliamo porre l’attenzione sugli altri tre: sistema di elezione del Csm, equa valutazione dei magistrati nei consigli giudiziari distrettuali e separazione delle carriere.

Csm, sistema di elezione 

Il Consiglio Superiore della Magistratura è l’organo di autogoverno dei magistrati, presieduto dal Presidente della Repubblica. Ai sensi dell’art. 104 della Costituzione, i componenti del Csm “sono eletti per due terzi da tutti i magistrati ordinari tra gli appartenenti alle varie categorie, e per un terzo dal Parlamento in seduta comune tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. I primi sono detti membri togati, i secondi laici.

I membri laici non hanno bisogno di candidarsi, sono infatti eletti autonomamente dal Parlamento tenuto conto dei soli requisiti indicati dalla Costituzione: vanno scelti tra i professori universitari ordinari in materie giuridiche e gli avvocati con almeno quindici anni di esercizio. Per i membri togati esiste invece una procedura particolare, regolata dall’art. 25 della legge 24 marzo 1958, n. 195 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della Magistratura). Il terzo comma dell’art. 25, oggetto di quesito abrogativo, prevede che i magistrati che intendono candidarsi al Csm presentino la loro candidatura in “una lista di magistrati presentatori non inferiore a venticinque e non superiore a cinquanta”.

Insomma, se un magistrato si vuole candidare al Csm deve aderire necessariamente ad una “corrente”, rendendo possibili in questo modo vere e proprie fazioni politiche all’interno della magistratura. È da qui che nasce il “sistema delle correnti” che dal 1992 in avanti, sull’onda delle inchieste di Tangentopoli, è servito alla magistratura per intervenire – direttamente o indirettamente – nel processo democratico del Paese, condizionando talvolta le sorti di Parlamento e Governo. Se il quesito abrogativo fosse approvato, cioè se vinceranno i Sì all’abrogazione, i giudici che vorranno candidarsi al Csm potranno presentare liberamente la propria candidatura senza raccogliere firme e quindi senza aderire a fazioni politiche.

Equa valutazione dei magistrati 

Presso ciascun distretto di Corte d’appello sono istituiti i consigli giudiziari distrettuali, detti anche mini-Csm. Sono composti per lo più da magistrati, ma anche da professori universitari in materie giuridiche e avvocati. Si tratta dunque di un organo che rispecchia la composizione “mista” del Csm, così da garantire al suo interno la rappresentanza di tutti gli attori della giustizia. Tra le funzioni dei consigli giudiziari c’è anche quella della valutazione sulla professionalità dei magistrati, dal cui voto sono però esclusi professori e avvocati.

Le norme interessate dal quesito abrogativo sono alcune di quelle contenute nella legge che istituiva il Consiglio direttivo della Corte di cassazione e nuova disciplina dei Consigli giudiziari, vale a dire il Decreto Legislativo 27 gennaio 2006, n. 25 a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera c) della legge 25 luglio 2005 n. 150. In caso di abrogazione delle norme oggetto del quesito, avvocati e professori universitari facenti parte dei Csm distrettuali potranno infatti esprimere, al pari degli altri componenti, la loro valutazione in ordine alla professionalità dei magistrati che prestano servizio nel distretto.

Come dice una vecchia locuzione latina, canis canem non est (cane non mangia cane), quindi l’obiettivo del referendum è evidente: smantellare il corporativismo giudiziario ed evitare l’autoreferenzialità della magistratura, in modo che non siano solo i giudici a valutare i giudici, ma anche altri importanti protagonisti del settore come appunto professori in materie giuridiche e soprattutto gli avvocati. Del resto, non si capisce perché questo debba valere per il Csm, dove decidono anche  professori e avvocati e non per i cosiddetti mini-Csm.

Separazione delle carriere

Il quesito riguarda l’abrogazione delle norme di legge vigenti che consentono il passaggio dei giudici dalla funzione requirente a quella giudicante, e viceversa. La funzione requirente è svolta dal pubblico ministero che fa le indagini, cioè dalla Procura che sostiene l’accusa, quella giudicante è svolta dal giudice di tribunale, di Corte d’appello o di Cassazione che giudica l’imputato. Il testo del quesito riguarda l’abrogazione di alcune disposizioni di legge a partire dal Regio decreto n. 12/1941 (quello sull’ordinamento giudiziario), fino alla nuova disciplina dell’accesso in magistratura (D.Lgs. n. 160/2006) e gli interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario (d.l. n. 193/2009 convertito con modificazioni nella Legge n. 24/2010).

Sino alla riforma del codice di procedura penale (d.p.r. n. 447/1988), pubblico ministero e giudice erano seduti in aula sullo stesso scranno, in un sistema inquisitorio in cui l’inquirente era una sorta di para-giudice che si poneva al di sopra della difesa. Le cose cambiano con la riforma del codice di procedura alla fine degli anni Ottanta e con la riforma dell’art. 111 della Costituzione nel 1999, cioè con la trasformazione del processo penale da inquisitorio ad accusatorio (secondo cui la prova si forma nel dibattimento in condizioni di parità tra accusa e difesa), ma l’ordinamento giudiziario è rimasto ancora quello degli anni Quaranta, con l’intercambiabilità delle funzioni giudiziarie.

Ad oggi l’accesso in magistratura consente al vincitore del concorso di optare per la funzione prescelta e cambiarla fino a quattro volte nel corso dell’intera carriera, con un intervallo di almeno cinque anni da un cambio all’altro. Può un ex pubblico ministero essere davvero equidistante quando passa dalla funzione requirente a quella giudicante? Crediamo proprio di no, visto che il modus operandi adottato nelle due funzioni è completamente diverso (uno è abituato ad accusare, l’altro a giudicare con terzietà). L’abrogazione proposta dal quesito aprirebbe pertanto la strada alla netta separazione delle carriere dei magistrati. Nel caso in cui al referendum vincesse il Sì all’abrogazione, una volta intrapresa una delle due carriere – requirente o giudicante – il magistrato non potrebbe più optare per l’altra. Ciò garantirebbe la piena realizzazione del principio del giusto processo di cui all’art. 111 della Costituzione, secondo cui ogni processo si deve svolgere “davanti a giudice terzo e imparziale”.

A proposito di separazione delle carriere, vale la pena di ricordare quanto disse Giovanni Falcone – giudice simbolo della lotta alla mafia – in un’intervista del 3 ottobre 1991: “Contraddice tutto ciò il fatto che, avendo formazione e carriere unificate, con destinazioni e ruoli intercambiabili, giudici e Pm siano, in realtà, indistinguibili gli uni dagli altri. Chi, come me, richiede che siano, invece, due figure strutturalmente differenziate nelle competenze e nella carriera, viene bollato come nemico dell’indipendenza del magistrato”.

Se si vuole davvero cambiare la giustizia, il 12 giugno servono cinque Sì. Se il referendum non dovesse raggiungere il quorum sarebbe una sconfitta non di un partito ma di tutto il Paese e anche i tentativi di governo e Parlamento per cambiare qualcosa nell’ordinamento giudiziario diventerebbero molto più difficili senza il sostegno del consenso popolare. Non dimentichiamo che le norme che riguardano la separazione delle carriere e l’elezione dei membri togati del Csm devono essere ancora approvate dal Senato.

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