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Caro Porro, nessun ristoro per cavilli burocratici

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Gent.mo dott. Porro,

dopo nove mesi di vessazioni, ho deciso di rompere il silenzio e rendere pubblica la discriminazione subita dalla mia azienda, esclusa da ogni ristoro per una sciagurata combinazione di cavilli burocratici e per questo condannata alla chiusura, lasciando a casa me e i miei nove collaboratori.

È appena cominciato il 2021 e devo decidere con mille euro sul conto corrente se chiudere l’attività (con mutui e debiti che comunque non saprei come pagare), o se chiedere aiuto a degli strozzini. Leggo e sento alcuni miei colleghi lamentarsi dell’esiguità degli aiuti statali. Non sarà difficile, quindi, immaginare la condizione di chi sta subendo le stesse perdite, ma senza percepire alcun sussidio per far fronte alle spese.

È da aprile 2020 che Erbavoglio, il bistrot che dirigo a Molfetta (Bari), non riceve alcun ristoro, contributo, sostegno dallo Stato. Niente di niente, zero assoluto. Non abbiamo diritto nemmeno al credito di imposta sugli affitti, seppure continuiamo a pagare locazioni, utenze, servizi e consulenze. Non parliamo della merce buttata e delle scadenze non rispettate con i fornitori, ma la vera spada di Damocle sono le rate del mutuo, che prima o poi dovremmo pagare, e la fiscalità (locale e nazionale). Non abbiamo diritto a nulla perché, secondo la disciplina dei decreti susseguitisi dall’inizio della crisi ad oggi, non ci viene riconosciuta la “perdita di fatturato”.

Tutti i decreti, infatti, fanno riferimento ad un unico dato di confronto: il fatturato di aprile 2019. In quel periodo, però, sfortunatamente l’attività era chiusa per un’importante ristrutturazione dei locali, che avrebbe cambiato radicalmente persino la natura stessa dell’attività: da caffè letterario siamo diventati green bistrot con cucina e servizio al tavolo (prevalentemente serale, non essendoci un mercato diurno). Un investimento notevole, per le mie disponibilità, reso possibile solo attraverso un finanziamento bancario e gli aiuti della mia famiglia. La vecchia attività non funzionava e dovevo scegliere se chiudere o fare il salto di qualità: ho scelto il salto e il risultato è stato entusiasmante.

Poi è arrivata la pandemia. Il fatturato tra gennaio e giugno 2019 (il periodo dei lavori) è stato zero. Ogni confronto relativo all’attività dell’azienda nel periodo di chiusura della stessa, darà sempre il medesimo risultato secondo i dpcm: nessuna perdita di fatturato. E così siamo stati condannati all’invisibilità. Anche gli ultimi decreti ristori, anziché confrontare i mesi di novembre o dicembre 2020, con i corrispettivi del 2019, continuano a far riferimento ad aprile 2019 (un delta di venti mesi). È un incubo. Non siamo beneficiari nemmeno dei sussidi per le start up: il numero di partita Iva dell’azienda è sempre lo stesso e, quindi, nonostante abbia cambiato attività e persino codice Ateco prevalente (da bar a ristorante con somministrazione), per lo stato non è cambiato nulla.

Al momento l’attività è ferma ad eccezione di alcuni sporadici servizi di take away secondo quanto consentito. La cucina è chiusa: abbiamo provato con la delivery, ma genera più spese che ricavi. Non contestiamo le chiusure, ci siamo sempre adeguati a tutte le prescrizioni e crediamo profondamente che per uscire dalla pandemia ciascuno debba armarsi di grande senso di responsabilità. Però siamo stati completamente abbandonati: così siamo condannati alla chiusura per decreto. Non posso pensare di chiudere i battenti proprio ora che, con l’investimento completo, il locale stava funzionando. Con il nostro lavoro abbiamo contribuito a trasformare volto e funzione della piazza in cui siamo situati: da luogo di degrado a centro pulsante di incontro, cultura e vitalità. L’ultima speranza è che tra le mille proroghe qualcuno si sia ricordato di noi (e di chi si trova nella nostra stessa condizione).

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