In questi giorni si sono scritti molti articoli sul blackout avvenuto in Spagna. Alcuni davvero interessanti, pubblicati da esperti del settore. Il mio obiettivo, qui, non è aggiungere nuovi dettagli tecnici, ma cercare di rendere il tema più comprensibile ai non addetti ai lavori e trarne alcune considerazioni sugli sviluppi del mercato dell’energia negli ultimi anni, mostrando come tutto — dalla rete elettrica al giudizio sull’uomo e la tecnica — abbia un filo conduttore.
Il nodo centrale della fornitura elettrica sta nella stabilità dei sistemi. È una materia complessa, ma fondamentale. Pensiamo a camminare su un sentiero di montagna esposto: se perdiamo l’equilibrio verso la scarpata, cadiamo. Ma se c’è una corda metallica a cui aggrapparsi, possiamo salvarci. Nei sistemi, questa corda é un oggetto che contribuisce alla stabilità.
In tanti settori — caldaie, automobili, aerei, cicli produttivi — il compito dei sistemisti è fare in modo che, dopo una perturbazione, il sistema non si rompa, ma torni alla normalità. Gli ammortizzatori delle auto ne sono un esempio: senza di essi, dopo una buca, l’auto continuerebbe a vibrare o si danneggerebbe. Con gli ammortizzatori, tutto si smorza in fretta. I sistemi elettrici non sono poi così diversi: funzionano grazie a un delicatissimo equilibrio, 24 ore su 24, che mantiene la frequenza della rete attorno ai 50 Hz, come un funambolo che ondeggia a sinistra e a destra ma resta in piedi.
I generatori convenzionali (come turbine a gas e a vapore) sono macchine rotanti che trasformano l’energia meccanica in elettrica. Queste macchine, per la loro massa, stabilizzano automaticamente il sistema quando la frequenza si allontana dai 50 Hz: reagiscono frenando o spingendo, come un volano. È ciò che si chiama inerzia, ed è una risorsa preziosissima. Oltre all’inerzia, le macchine rotanti forniscono tre livelli di riserva di potenza:
- Primaria: automatica entro 30 secondi, per contrastare le prime oscillazioni;
- Secondaria: entro 5 minuti, per sostenere la primaria e riportarla al punto di partenza;
- Terziaria: entro 15 minuti, per rimpiazzare la secondaria e ricostituire le riserve.
Tutte queste riserve devono poi essere reintegrate, altrimenti il sistema resta vulnerabile a nuovi squilibri. E più un sistema è ricco di riserve pronte, più è stabile.
Arriviamo così al blackout spagnolo. Non mi soffermo sulle cause puntuali — ancora in fase di analisi — ma su ciò che conta davvero: la resilienza del sistema. Quel giorno ci sono state almeno tre deviazioni importanti della frequenza in mezz’ora. Le prime due il sistema le ha assorbite. Alla terza è crollato. È lecito domandarsi se sia stata davvero una coincidenza o se, invece, ci sia stato un errore strutturale nella gestione delle riserve o nella composizione del mix energetico.
Oggi, in Spagna, in molte ore della giornata il carico è coperto quasi interamente da fonti rinnovabili, soprattutto fotovoltaico. Ma le rinnovabili non hanno inerzia. Perché? Perché la loro energia non è prodotta da masse rotanti collegate direttamente alla rete, ma da inverter elettronici. E un inverter, a differenza di una turbina, non reagisce meccanicamente alle variazioni di frequenza. Le rinnovabili possono anche fornire una parte delle riserve, ma solo riducendo la produzione, non aumentandola (a meno di trattenere appositamente della potenza non sfruttata). In ogni caso, non sono in grado di fornire la riserva primaria.
Questa mancanza di servizi di stabilità rende il lavoro dei gestori di rete, come Red Eléctrica, molto più complesso. Dopo il mercato del giorno prima, dove si decidono i programmi di produzione e consumo per le 24 ore successive, il gestore valuta se i risultati sono compatibili con la sicurezza della rete. Se non ci sono abbastanza macchine rotanti, può intervenire tramite un meccanismo detto mercato delle restrizioni tecniche, per modificare i programmi e rendere la rete più robusta.
Quali programmi? Quelli determinati nei mercati dell’energia del giorno prima. L’elettricità non si può stoccare facilmente, né ritardare nel tempo: produzione e consumo devono avvenire in tempo reale, e devono essere programmabili e affidabili. Per questo si costruisce un sistema di mercati che premia la programmabilità e penalizza lo scostamento dai programmi.
Nel mercato del giorno prima si stipulano veri e propri contratti vincolanti: se prometti di produrre alle 15:00, devi farlo. Se non rispetti il programma, generi uno squilibrio che qualcun altro dovrà coprire in tempo reale. Questo genera costi di sbilanciamento, che vengono addebitati a chi ha creato lo scostamento e servono a remunerare la flessibilità offerta da chi ha compensato.
Tutto ciò è sacrosanto e necessario. Ma oggi non funziona. Perché gli incentivi alle rinnovabili — generosi, per usare un eufemismo — sono talmente alti da aver reso, almeno fino ad ora, irrilevanti i costi di sbilanciamento. Il risultato è che abbiamo molte più rinnovabili di quante il sistema possa gestire in sicurezza.
E questi incentivi non sono affatto finiti. Al contrario: nuovi schemi come il FER X italiano sono in arrivo, mentre le fonti programmabili (gas, carbone) sono gravate da meccanismi come l’ETS (Emission Trading Scheme), una forma di tassazione sulle emissioni che rende il loro uso sempre più costoso. Si penalizza la stabilità, si premia l’intermittenza.
Allora diciamolo: il mercato libero dell’energia non ha fallito. Non ha fallito perché non c’è mai stato. Siamo in presenza di un ecosistema pesantemente distorto, dove efficienza tecnica e realismo economico vengono sistematicamente sconfitti da sussidi, ideologia e regolazione sbilanciata. I prezzi all’ingrosso scendono, ma gli oneri di sistema salgono, e il prezzo finale pagato dai cittadini aumenta.
Perché tutto questo quindi? Perché un sistema tanto distorto?
Il problema è profondo a mio parere. Antropologico, direi. Non credo davvero che gli occidentali benpensanti da salotto siano così sinceramente preoccupati per il futuro climatico. Forse queste persone hanno solo bisogno di un pretesto per sentirsi migliori rispetto agli altri. Non penso tengano nemmeno alle generazioni future o ai loro figli. D’altronde, se si guarda alla natalità dell’Occidente, si ha l’impressione che il futuro non interessi davvero a nessuno.
C’è una moda diffusa: dire che l’uomo è un virus per il pianeta, che sarebbe meglio se sparisse. Un giudizio che il nostro occidentale medio dice in modo leggero, davanti a un aperitivo, tra sorrisi e consensi, senza che nessuno osi replicare. E invece io replico, e mi incazzo pure. Senza l’uomo non sarebbe nemmeno valsa la pena di avere la terra e le stelle. Io ai miei figli continueró a dire che il mondo è bellissimo, che va custodito ma che è stato fatto per la nostra felicità. Noi non siamo qui per prolungare la vita del pianeta all’infinito. Non ne avremmo nemmeno la forza.
E poi, se il nostro Occidente ha tristemente smesso di credere nel senso eterno dell’essere umano, allora perché dovrebbe preoccuparsi davvero del destino della Terra? Permettetemi di dire che forse, proprio io che critico l’ETS, tengo più al pianeta di tanti ambientalisti a parole, perché credo in Dio e credo che il mondo sia stato fatto per l’uomo.
Alla fine, questo cancro culturale ha invaso anche l’energia. E personaggi come Von der Leyen, Draghi o Timmermans — per ingenuità o secondi fini — hanno dato vita a una macchina ideologica e dirigista, che arricchisce pochi e distrugge l’efficienza. Un sistema collettivista chiamato da alcuni turbocapitalismo, che è l’opposto del vero capitalismo: quello in cui guadagna chi produce qualcosa di utile.
E no, non é nemmeno comunismo questo. Il comunismo, in fondo, era spesso cercato in buona fede (che Dio li perdoni). Questa, invece, è solo una fregatura.
M.
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