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Caro Renzi, la “riapertura” è una strategia, non uno spot

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Come spesso gli capita, Matteo Renzi affoga una goccia di buon senso in un paio di litri di propaganda e superficialità, con risultati devastanti in primo luogo per lui. Ma questo – cioè il suo boomerang di comunicazione – ci importa poco: quel che invece è grave è che il senatore di Rignano rischia di rendere radioattivi gli argomenti che tocca, arrecando un danno pesante a chi si sforza di suggerire soluzioni razionali.

Ricapitoliamo. Facendosi intervistare su Avvenire nel weekend, il capo di Italia Viva aveva toccato una questione vera: la necessità di avviare una discussione sulla “riapertura” del paese.

A partire naturalmente da Nicola Porro, su questo sito diverse voci avevano posto da tempo il problema, che troppi – anche per meccanismi psicologicamente comprensibili – esorcizzano. Perché occorrerebbe discuterne, invece? Per almeno due ragioni.

1. Perché non sappiamo quando arriverà il vaccino anti Coronavirus, e quindi i tempi di chiusura rischiano di diventare insostenibilmente lunghi.

2. Perché conosciamo molto poco di questo virus, non sappiamo se avrà la tendenza a tornare, se ci saranno altre ondate, se addirittura diverrà stagionale. Se così fosse, che facciamo, lasciamo tutto chiuso per un anno o un anno e mezzo? È evidente che sarebbe impossibile, ingestibile dal punto di vista economico: nessun ombrello, nessuna misura di assistenza potrebbe mai reggere a una prospettiva di blocco economico così lunga e – a quel punto – così esiziale.

Queste sono le ragioni che militano a favore di una discussione razionale sulla riapertura. Ma – proprio per questo, allora – il tema andrebbe maneggiato con cura, in modo persuasivo e non propagandistico, non riducendolo a battuta o a slogan. Pena la sequenza di schiaffi che hanno raggiunto Renzi, a partire dalla replica più ovvia: ci vada lui e i suoi familiari in metro, sui bus, a stringere mani, e così via.

Caro Renzi, la “riapertura” è una strategia, non un espediente tattico per un’intervista. E richiederebbe almeno tre condizioni.

1. Adottare, nelle parti ancora “salve” del paese, una linea sudcoreana, cioè una maxi operazione di individuazione delle filiere potenziali di contagio, con tamponi a tappeto, quarantene durissime ma mirate (cioè riservate ai positivi), e all’interno di uno screening capace di coinvolgere un’amplissima fetta della popolazione.

2. Una strategia economica molto articolata, per tenere acceso il motore produttivo in due terzi del territorio nazionale. Chi scrive detesta – per mille ragioni – il modello cinese: ma lì, appunto, pur chiudendo in modo selvaggio Wuhan e la provincia dell’Hubei, hanno tenuto al lavoro il restante miliardo e mezzo di cinesi. Il governo, anziché giochicchiare con mancette offensive, avrebbe dovuto fare questo: per un verso, attivare liquidità immediata e diretta per individui, famiglie e imprese (con bonifici sui conti correnti), e per altro verso convincere imprese e sindacati a un calendario di riaperture modulate sul territorio (Lombardia esclusa, ovviamente), con le opportune garanzie per i lavoratori.

3. Serviva, per fare tutto questo, una leadership legittimata, capace di parlare al paese, persuaderlo, rassicurarlo, e spiegare che tutti siamo chiamati a “stare al fronte”. Medici e infermieri hanno il loro fronte in ospedale, tutti gli altri hanno la propria trincea nell’obbligo di far vivere l’economia reale.

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