Il caso Becciu, il rapporto con la Cina e le polemiche sull’Azerbaigian sono i principali ostacoli che separano il Segretario di Stato, Pietro Parolin, dalla possibilità di succedere a Bergoglio. Sul caso Becciu – tutto in evoluzione che si è risolta con la dolorosa e non scontata rinuncia del cardinale a partecipare al Conclave per non spaccare il collegio cardinalizio attorno al suo nome – Parolin ha avuto un ruolo chiave.
Fu lui, infatti, a varcare di notte, almeno in due occasioni, il portone del porporato, accompagnato dal cardinale Re e dal Camerlengo Farrell, per chiedergli di fare un passo indietro, mostrando, almeno una volta, un dattiloscritto in tal senso, siglato con una semplice «F» da Bergoglio, che solitamente firmava «Franciscus». La Costituzione apostolica, tuttavia, riconosce a Becciu il pieno diritto di partecipare al Conclave, regola di buon senso che i Cardinali dovrebbero difendere in nome dello Spirito Santo e non per intrighi di Palazzo e con un Papa ormai in Paradiso.
I rapporti tra Parolin e Becciu furono da subito tesi: il cardinale sardo era arrivato un anno prima su richiesta di Benedetto XVI alla Segreteria di Stato, e la sua presenza risultò da subito ingombrante. La mitezza e la timidezza di approccio di Parolin fecero sì che il rapporto diretto tra Becciu e Francesco compromettesse rapidamente la loro relazione. La nomina di Becciu al Sovrano Militare Ordine di Malta fu la scintilla che fece esplodere le tensioni: se da una parte il Papa aveva deciso di inviare lì il suo sostituto per mettere ordine, Parolin si sentì emarginato e tradito nella fiducia.
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Oggi la vicenda Becciu, con i risvolti ancora in evoluzione – non ultima la possibile sanzione Onu dopo un esposto sulla questione dell’indipendenza della giustizia vaticana e la violazione dei diritti di difesa riconosciuti a livello internazionale – rappresenta un fardello che complica seriamente la corsa di Parolin al Soglio.
Spingere Becciu fuori dal Conclave dopo la diffusione di chat imbarazzanti tra inquirenti e figure estranee al processo, rischia inoltre di alienargli molte simpatie, soprattutto da parte dell’ala più garantista del collegio cardinalizio, che ieri ha trovato voce nel cardinale piemontese Giuseppe Versaldi – il quale, avendo superato gli ottant’anni, non potrà però entrare nella Cappella Sistina.
Nel panorama della diplomazia vaticana contemporanea, il grande favorito Pietro Parolin rappresenta una figura di esperienza. Nato nel 1955 a Schiavon, si è formato nelle rappresentanze diplomatiche della Santa Sede in Africa e in America Latina, prima di rientrare a Roma e dedicarsi all’attività di Segreteria.
Uno dei passaggi più delicati della sua attività – criticato soprattutto da una parte dell’episcopato statunitense vicino all’area di Donald Trump – resta l’accordo siglato con la Cina nel 2018, poi rinnovato nel 2020 e nel 2022. Un’intesa che ha permesso alla Chiesa cattolica di mantenere una presenza ufficiale in Cina, pur tra molte difficoltà, salvaguardando la comunione con Roma.
In questi giorni, la commozione diffusa sui social media cinesi alla notizia della morte di Papa Francesco ha incredibilmente testimoniato quanto profondo fosse il legame di rispetto instaurato con il Pontefice, grazie anche a questa apertura diplomatica. La Cina, pur non riconoscendo ufficialmente alcuna religione, tollera il culto cattolico entro regole molto rigide. Il numero dei cattolici ufficialmente registrati si aggira intorno ai dieci milioni, ma le stime reali parlano di una presenza ben più ampia. Inoltre, la comunità cattolica cinese appare in forte crescita, soprattutto tra i giovani, attratti da una visione della fede più aperta, comunicativa e moderna.
Un altro punto critico nella gestione diplomatica di Pietro Parolin riguarda i rapporti con l’Azerbaigian. Nonostante le denunce della Chiesa armena sui generosi finanziamenti ricevuti dal Vaticano da parte di Baku – accusata di pulizia etnica contro i cristiani del Nagorno-Karabakh – e le intimidazioni dell’ambasciatore azero contro chi dava voce ai perseguitati armeni, Parolin ha scelto di non intervenire in modo netto.
Anche se Parolin riuscisse a superare questi ostacoli, rimane per lui valido il vecchio adagio romano: «Chi entra Papa, esce cardinale». Da quasi cinquant’anni, infatti, gli italiani arrivano ai conclavi numerosi ma divisi, e ogni volta si ripete una storia già vista: quella di un’occasione perduta.
Nell’ottobre del 1978, in una Roma ancora scossa dalla morte improvvisa di Giovanni Paolo I, tutto sembrava pronto per l’elezione di un italiano. Giovanni Benelli, potente ex braccio destro di Paolo VI, era il grande favorito. Ma a sbarrargli la strada c’era Giuseppe Siri, l’arcigno arcivescovo di Genova, sostenuto dall’ala conservatrice. Nessuno dei due riuscì a prevalere e, nella confusione, emerse un nome inatteso: Karol Wojtyla, il cardinale di Cracovia. Il primo Papa non italiano dopo quasi cinque secoli.
Quando, nel 2005, morì Giovanni Paolo II, la storia si ripeté. Carlo Maria Martini, amatissimo e profetico, era ormai troppo malato per sostenere il peso del pontificato. Angelo Scola, giovane e in piena ascesa, non riuscì a raccogliere consensi sufficienti. Tarcisio Bertone, figura di peso nella Curia, rimase defilato. Alla fine, fu Joseph Ratzinger a essere eletto Papa.
Nel marzo 2013, dopo la rinuncia di Benedetto XVI, sembrava finalmente giunta l’ora di Scola. Arcivescovo di Milano, grande comunicatore, godeva di ampi consensi. Ma anche lui fu vittima della solita dinamica: rivalità, sospetti, veti incrociati. E ancora una volta, il fumo bianco annunciò un nome straniero: Jorge Mario Bergoglio.
Da allora, la lezione è rimasta invariata: tanti cardinali italiani, nessun Papa italiano. Divisi, sempre. Eppure, ogni volta, qualcuno ci spera ancora. Parolin più di tutti, soprattutto se il Conclave dovesse essere breve. Perché i tanti nuovi cardinali – creati, quasi a loro insaputa, da Bergoglio – per ora si rapportano soprattutto con la Segreteria di Stato.
Parolin, a settant’anni, non può certo essere considerato un giovanissimo. E questa circostanza fa già scalpitare, in vista del futuro, i “cinquantenni in porpora”, che in queste notti romane si incontrano, si osservano e cominciano a conoscersi un po’ meglio, preparandosi, chissà, a un nuovo giro di Conclave, visto che saranno ancora sotto il fatidico limite degli ottant’anni.
Morto un Papa, se ne fa un altro, come ripetono a Borgo Pio.
Luigi Bisignani, 29 aprile 2025
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