In questi ultimi tempi, a causa della sempre più grave crisi dovuta ai costi dell’energia, in gran parte autoindotta, si indica come direzione strategica e “pulita” quella dei reattori nucleari a fusione (fusione di due nuclei atomici leggeri che si combinano per dare origine a un nucleo più pesante con rilascio di energia), che fornirebbero energia illimitata, a basso costo e senza scorie da gestire: la cosiddetta “energia delle stelle”. Non essendo un esperto in materia, ho interpellato sull’argomento un mio vecchio amico, un geniale professore di fisica ormai in pensione. Quello che è emerso dalla chiacchierata, manco a dirlo, è piuttosto sconfortante.
Le centrali a fusione in progettazione utilizzano come “combustibile” non solo il deuterio, un isotopo dell’idrogeno naturale, abbondante e stabile, ma anche il trizio, un isotopo estremamente raro in natura, con un’emivita di 12,32 anni, che si forma come sottoprodotto nelle centrali nucleari convenzionali, cioè quelle a fissione, le quali utilizzano come combustibile l’uranio (235U). Quindi, quando si parla di centrali nucleari a fusione, sarebbe più corretto dire le cose come stanno, ossia che si tratta di centrali che utilizzeranno come combustibile non solo il deuterio (D), ma una miscela di deuterio e trizio (D-T). E qui sorge il problema: l’approvvigionamento del trizio (tra l’altro, un gas volatile e radioattivo, difficile da contenere e manipolare). A questo punto ho voluto approfondire l’argomento.
Come abbiamo detto, il trizio è un isotopo raro dell’idrogeno, con un’emivita di circa 12,32 anni, il che significa che decade rapidamente e non si trova in quantità significative in natura. Attualmente, la maggior parte del trizio disponibile a livello globale proviene da reattori nucleari a fissione, in particolare dai reattori CANDU (Canada Deuterium Uranium) in Canada, che lo producono come sottoprodotto durante il funzionamento. Si stima che le scorte mondiali di trizio siano limitate a poche decine di chilogrammi (circa 20-50 kg), con una produzione annuale molto bassa, nell’ordine di qualche centinaio di grammi. Considerando che un reattore a fusione D-T di scala commerciale potrebbe richiedere 1-2 kg di trizio all’anno (secondo stime per ITER e progetti successivi come DEMO), è evidente che le scorte attuali sarebbero insufficienti anche solo per un singolo reattore operativo per un periodo relativamente prolungato, figuriamoci per una rete di centrali.
La strategia principale per superare questa limitazione è rendere i reattori a fusione autosufficienti nella produzione di trizio, ma questa soluzione è ben lungi dall’essere realizzata. Ad esempio, ITER, il reattore sperimentale internazionale in costruzione in Francia, non è progettato per essere completamente autosufficiente in trizio. I primi test con deuterio e trizio sono previsti non prima del 2035-2039 (secondo gli ultimi aggiornamenti di luglio 2024) e, anche allora, si limiteranno a test su scala ridotta per la produzione di trizio; pertanto, l’autosufficienza sarà ancora lontana. Solo con il progetto DEMO, il prototipo di reattore successivo a ITER, previsto per la metà del secolo, si punterà a testare la produzione di trizio in quantità sufficienti a garantirne l’autosufficienza.
La ragione principale per cui è necessario ricorrere alla miscela deuterio e trizio (D-T) è la temperatura di ignizione più bassa: la reazione D-T richiede temperature di “soltanto” 100-150 milioni di gradi Celsius (già un’impresa titanica, ma comunque inferiore rispetto a quella richiesta da altre reazioni ipotizzabili). Per contro, la fusione con solo deuterio richiede temperature ben più alte (circa 400 milioni di gradi), mentre altre soluzioni alternative necessitano di miliardi di gradi, temperature attualmente al di là di ogni fattibilità.
Quindi, dato che la scelta obbligata, almeno per questo secolo, è quella di utilizzare la miscela D-T, e anche assumendo che un reattore possa diventare autosufficiente, serve una quantità iniziale di trizio per avviarlo. Con le scorte attuali così limitate, soddisfare questa domanda per più reattori sarebbe problematico senza una significativa espansione della produzione tramite fissione o altre fonti. Infatti, si potrebbe incrementare la produzione di trizio tramite reattori a fissione dedicati, ma ciò comporterebbe costi elevati e una dipendenza da un’infrastruttura nucleare esistente, contraddicendo in parte l’idea di un’energia “pulita” e autonoma.
In conclusione, siamo ancora lontani da una soluzione definitiva per l’approvvigionamento del trizio su larga scala e le scorte attuali sono insufficienti per sostenere anche solo un piccolo reattore per più di poche ore o giorni di funzionamento continuo. Qualcuno potrebbe pensare di accumularlo, ma non bisogna dimenticare che la scorta iniziale si dimezzerebbe ogni 12 anni circa, essendo il trizio instabile. Il progresso dipende dai test futuri di ITER e dalla validazione di sistemi per rendere i futuri reattori a fusione autosufficienti, ma i ritardi (il primo plasma significativo è slittato al 2034-2039) e le incertezze tecniche suggeriscono, ottimisticamente, che una filiera commerciale basata sul trizio non sarà realtà prima della seconda metà del secolo. Nel frattempo, la ricerca continua, ma il trizio resta un collo di bottiglia critico che potrebbe limitare la scalabilità della fusione nucleare D-T.
A questo punto, sconsolato, ho chiesto al mio amico quale potesse essere una via realisticamente percorribile. La risposta: “Gli investimenti nella fusione nucleare avranno sicuramente importanti ricadute scientifiche e tecnologiche, ma sono scettico sulla loro applicazione commerciale. Dal canto mio, ho investito i miei soldi in una società che si occupa di reattori a fissione intrinsecamente sicuri, piccoli e modulari (SMR/AMR), il cosiddetto nucleare di quarta generazione.”
Da tutto ciò ho dedotto che, come spesso accade, l’informazione destinata al grande pubblico è per lo meno eccessivamente ottimistica sul mirabolante futuro energetico che ci sarà assicurato “dall’energia delle stelle”. Sarebbe più realistico puntare nell’immediato sulle centrali nucleari di terza generazione (Gen III/III+) e, allo stesso tempo, aumentare gli investimenti sul nucleare di quarta generazione, che molto probabilmente rappresenterà il futuro del nucleare a fissione (tra l’altro, risolverebbe in gran parte anche il problema dello smaltimento delle scorie delle centrali nucleari convenzionali). Tuttavia, è inutile negarlo: se la fusione nucleare è poco più che una chimera, anche per il nucleare di quarta generazione c’è ancora molta strada da fare per un’implementazione su vasta scala. Nell’immediato, teniamoci cari i nostri idrocarburi, compreso il metano di cui già disponiamo; usiamo l’eolico e il solare con parsimonia, solo quando economicamente conveniente; e iniziamo a costruire queste benedette centrali nucleari di terza generazione (Gen III/III+). Meglio tardi che mai. La fusione nucleare è davvero “l’energia delle stelle”, sia per origine che per ambizione.
Carlo MacKay, 2 marzo 2025
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