Economia

Credit Suisse, un mese dopo: chi c’era davvero dietro il crac

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Dopo Swissair e la scomparsa del segreto bancario, questo è il terzo colpo più duro inferto alla Svizzera. L’opinione pubblica elvetica è indignata e la fiducia nelle istituzioni è crollata ai minimi storici. Il Credit Suisse, che vantava 167 anni di storia, è crollato in 72 ore, senza che la Confederazione avesse il tempo, le capacità e forse la voglia, di studiarne il salvataggio, come fece invece per UBS nel 2008. È anche vero, come ha di recente sostenuto il presidente nazionale dell’UDC Marco Chiesa, che prima dei soldi, Credit Suisse avesse già perso l’anima svizzera, troppi investimenti rischiosi all’estero, troppi manager stranieri lontani dalla cultura e dalla tradizione elvetica.

Ma molti analisti, tra i quali l’ex Ceo dell’Istituto di Paradeplatz Oswald Gruebel, in carica dal 2003 al 2007, sostengono che si sarebbe potuto fare di più per salvarla, dividendo per esempio la parte insana dell’Investment Banking legata ai crediti speculativi d’oltreoceano, da quella sana del Private Banking. Questo malgrado tutta la collezione di fallimenti, dal crollo dei fondi speculativi Greensill e Archegos, per una perdita di 16 miliardi di dollari, fino agli scandali di corruzione in Mozambico e del coinvolgimento nel riciclaggio di denaro della mafia bulgara, per finire con i 15,7 miliardi di franchi spesi tra il 2009 e il 2020, in multe e difese legali.

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Ma la situazione è precipitata in pochi giorni, senza che vi fosse il tempo di trovare le soluzioni. Per tenere a mente la cronaca di quei momenti, bisognerebbe forse tenere a mente due punti chiave, il primo, un articolo del Financial Times dal titolo “How the Swiss trinity forced to save Credit Suisse” in cui descrive tutti i dettagli e gli step dello shotgun marriage imposto in tutta fretta dal Consiglio Federale, dalla BNS e dalla FINMA a UBS e Credit Suisse, su pressioni americane e inglesi, per timori di contagio a tutto il sistema bancario.

Nell’articolo, grazie alle rivelazioni di una gola profonda, si specifica che il ministro delle finanze Karin Keller-Sutter, il capo della BNS Thomas Jordan e il capo della FINMA Marlene Amstad, in quel famoso mercoledì 15 marzo del tracollo in borsa di Credit Suisse, abbiano convocato in tutta urgenza una riunione con il presidente CS Axel Lehmann e l’amministratore delegato Ulrich Koerner, autorizzando una prima garanzia di 50 miliardi di franchi in contropartita alla seguente richiesta: “Farete la fusione con UBS e lo annuncierete domenica 18 sera prima dell’apertura dei mercati asiatici. Non ci sono altre opzioni.”

Dopo l’annuncio di fusione, il 19 marzo, seguiranno le disponibilità di garanzie a favore di UBS, a copertura dell’operazione: 200 miliardi di franchi da parte della BNS e 9 da parte della Confederazione. Totale 259 miliardi di franchi che probabilmente non serviranno, ma che nulla esclude possano servire. Il tutto per una banca, il Credit Suisse, con una capitalizzazione di borsa di appena 10 miliardi di franchi (la metà di Deutsche Bank), al 45°posto della classifica mondiale S&P per attivi (863 miliardi di dollari, contro i 3684 di JP Morgan). Questo fa pensare, secondo la nota giornalista d’inchieste bancarie svizzere Myret Zaki, che scrisse nel 2008 un libro sugli azzardi finanziari statunitensi di UBS, che dietro questa ingente somma posta a garanzia, ci sia una montagna di crediti speculativi della finanza non bancaria, il cosiddetto shadow banking, fatto di Hedge Funds, veicoli speciali, brokers e fondi d’investimento, che lega in un’unica rete interconnessa, tutto il sistema bancario.

UBS, che è al 38° posto della classifica S&P salirà certamente di grado e passerà dall’essere per la Confederazione, da too big to fail a too big to be saved. Chi salverà UBS, nell’eventualità di future turbolenze finanziare? La BNS, sostiene sempre Myret Zaki, non ha la potenza di fuoco della Bce o della Fed e nel 2022 ha registrato perdite per 132 miliardi di franchi, a causa del crollo dei prezzi delle azioni e delle obbligazioni. È vero che in Svizzera ci sono altre banche sistemiche, quali PostFinance Raiffeisen e la Banca Cantonale di Zurigo, ma le uniche due banche a rilevanza sistemica, attive a livello internazionale, erano UBS e Credit Suisse. Tutto l’universo delle banche private quali Julius Baer, Pictet o Lombard Odier & Co, sono concentrate esclusivamente sulle gestioni patrimoniali. Ora UBS starebbe valutando, secondo indiscrezioni del portale Inside Paradeplatz, l’entrata in borsa delle attività svizzere di CS, con l’obiettivo di mantenere il marchio e garantire maggiore concorrenza, ma nulla è stato ufficialmente confermato.

Il secondo punto chiave da tenere a mente, per capire la logica di quanto accaduto, è il ruolo dei media nell’innesco della perdita di fiducia e del ritiro dei capitali dal Credit Suisse: 32 miliardi di franchi nei soli due giorni antecedenti l’annuncio di UBS, 110 nell’ultimo trimestre 2022. Nella fattispecie, la nota intervista di Bloomberg al capo della Saudi National Bank, in qualità di azionista di maggioranza, che ha fatto crollare il titolo del 24% in quel fatidico mercoledì 15 marzo 2023. Intervista travisata dagli investitori a causa dell’equivoco tweet riassuntivo di Bloomberg: “Absolutely” not another cent for Credit Suisse. Quando invece Al Khudairy aveva giustificato per ragioni regolatorie (non finanziarie) la non necessità di aumentare il proprio capitale in Credit Suisse, mantenendo la piena fiducia nell’Istituto svizzero.

Sembrano allora profetiche le parole espresse sempre da Oswald Gruebel, in un intervista al SonntagsBlick, il 9 ottobre 2022: “Ho una visione molto critica dei media finanziari britannici, anche di quelli seri. Già da quando ero in Inghilterra per la prima volta nel 1967, percepii una grande antipatia per le banche svizzere. Sicuramente la coppia Thiam-Roehner al timone di Credit Suisse, è stata un errore, ma le affermazioni secondo cui Credit Suisse sarebbe sull’orlo del collasso e avrebbe bisogno di nuovi capitali, non hanno alcun fondamento: con un coefficiente patrimoniale di base del 13,5%, la banca dispone di un solido cuscinetto. Secondo me c’è molta speculazione. Credo che ci siano anche degli hedge fund che fanno vendite allo scoperto e che scommettono sul calo dei prezzi dell’azione. Per massimizzare i loro profitti, parlano con analisti e giornalisti al fine di creare il giusto clima per il calo dei prezzi”.

Su quest’ultimo aspetto, la Cnbc americana gli ha dato ragione: in un articolo apparso il 6 aprile scorso: “March’s banking chaos gave short sellers their biggest profits since the financial crisis”, il sito della tv finanziaria Usa ha precisato l’ammontare della scommessa vinta: 7 miliardi di dollari di ricavi in poche settimane.

Friedrich Magnani, 19 aprile 2023

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