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Croce, Prodi, Martino: chi sono i veri e i falsi liberali

Senza libertà economiche la libertà politica serve a niente. “Il Padreterno è liberale”: la recensione di Italia Oggi

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Romano Prodi? «Mi faccia la cortesia di non citarmelo, altrimenti mi viene l’iperacidità. È stato nominato professore ordinario di economia politica per aver scritto un saggio sul mercato delle piastrelle di Sassuolo. Vergognandosene, l’uomo che combinò questa nefandezza, Beniamino Andreatta, non consentì mai a Prodi di dargli del tu».

Giovanni Malagodi, segretario nazionale e presidente del partito liberale dal 1954 al 1985? «Malagodi era stato liberale nel 1963, quando fece una battaglia contro il centrosinistra coerente, efficace e ammirevole. Poi l’Assolombarda, che lo aveva finanziato, lo mollò perché non riuscì a debellare il centrosinistra. Indignato da questo fatto, Malagodi cominciò a spostarsi a sinistra, sempre più a sinistra. Alla fine era più a sinistra della sinistra. Io una volta lo definii socialista e lui se ne ebbe a male, pensando che volessi offenderlo. Ma non volevo offenderlo, lo stavo solo descrivendo!»

Quanto alle «persone di sinistra, soprattutto d’una certa sinistra, sono stupide. Ma veramente stupide. Da una lezione storica clamorosa come quella della caduta del Muro non hanno imparato niente. Cade il Muro e loro che cosa pensano? Che il capitalismo è comunque uno schifo. E che dunque bisogna riprovare col comunismo, magari un po’ modificato».

Si salva invece l’Onnipotente e Misericordioso: «Il concetto di peccato e quello opposto di virtù hanno senso soltanto se la persona è libera di scegliere l’uno o l’altro. Quindi la costruzione religiosa, cattolica e no, è legata alla libertà di scelta. La libertà di scelta è il liberalismo». Ergo, «il Padreterno è liberale. Assolutamente. Su questo non si discute».

Signori, Antonio Martino, scomparso ottantunenne lo scorso marzo.

Doveva essere una lunga intervista, da cui ricavare un libro, poi il protagonista è mancato e l’intervistatore, Nicola Porro, anchorman televisivo e suo addetto stampa in tempi remoti alla Farnesina, ha dovuto farsi bastare le quattro chiacchiere d’una sera, prima tappa del libro, e i ricordi d’una vita. Anche così – costruito con materiali pescati nella memoria, negli archivi dei giornali e su YouTube – Il Padreterno è liberale è un memoir che si legge con vantaggio, oltre che con piacere. Con la dovuta ammirazione, mista a quel divertito affetto che si guadagnano le persone brillanti e inflessibili, vi si celebra l’ultimo dei grandi liberali italiani.

Un liberale, non un «moderato», di cui Martino disprezzava la specie dall’alto della sua intransigenza, e certo non uno dei botoli di Silvio Berlusconi, liberali o statalisti secondo estro e convenienza del Cavaliere, di cui pure fu alleato ai tempi in cui il leader di Forza Italia non aveva ancora svelato il suo segreto (è liberale come Matteo Salvini è musulmano). Antonio Martino, invece, era un liberale per tradizione familiare, o meglio ancora per predisposizione genetica. Suo nonno, Antonino Martino, fu per quattro volte sindaco liberale di Messina tra il 1900 e il 1919, mentre suo padre, Gaetano Martino, deputato liberale dal 1948 al 1967, fu presidente del partito liberale, vicepresidente della camera, ministro della pubblica istruzione con Mario Scelba, ministro degli esteri con Mario Scelba e Antonio Segni e infine, tra il 1962 e il 1964, presidente del primo parlamento europeo.

A lui, Antonio Martino, deputato dal 1994 al 2018, toccò la sventura, ma anche l’avventura, d’entrare in politica (reclutato nei ranghi del partito di plastica) negli anni dello sprofondo, quando la storia parlamentare italiana era diventata, grazie a Tangentopoli e ai disordini mediatici che ne erano seguiti, un affare «vudù»: giornali, procure e primi talk show riempivano di spilli le bambolette dei politici ai quali decidevano, per farsi belli agli occhi di un’opinione pubblica insieme bieca e sempliciotta, di stroncare la carriera (e se facevano resistenza, perché no, anche la vita). Fino al 1994, l’anno del boom berlusconiano, Martino non s’era mai occupato di politica. Aveva insegnato alla Luiss, ateneo liberista, di cui era stato tra i fondatori e gli animatori prima che «se ne impadronisse Confindustria, che non era certo liberale». Dal 1988 al 1990, gli anni che segnarono la fine della pandemia comunista su questo pianeta, era stato presidente della Mont Pelerin Society, l’associazione internazionale fondata da Friedrich von Hayek, liberista senza compromessi, nemico numero uno d’ogni intervento statale nell’economia, l’anti-Keynes. Prima ancora era stato tra i collaboratori del Giornale (quello «di Montanelli», non le parodie degli ultimi trent’anni): «C’erano giornalisti di grandissimo valore. Era un quotidiano libero, ognuno scriveva ciò che voleva. Una cosa unica nell’Italia di quel tempo. Un giornale libero più che liberale».

Martino fu ministro degli esteri nel primo governo Berlusconi, subito abbattuto dalle grandi firme del Corriere della sera e dai cekisti della procura milanese. Allievo (e amico) di Milton Friedman, un liberista leggendario, il guru di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, Martino aveva rifiutato il ministero economico che gli era stato proposto. «Gianfranco Fini» – numero due o tre del nuovo governo – «si rivolse a me dicendo: «Ecco il nostro ministro dell’Economia. Uniremo tesoro, bilancio e finanze». Gli risposi che tesoro e bilancio si potevano accorpare, ma tesoro e finanze no. È necessaria, gli dissi, una dialettica tra chi spende e chi incassa, anche per contenere le reciproche opposizioni». Altri tempi, in cui nessun ministro economico, eletto o papabile, ignorava l’abicì, per esempio che «il reddito di cittadinanza presuppone, inevitabilmente, un prelievo di cittadinanza».

Certamente non lo ignorava Martino, che qualche anno dopo, alla boa del millennio, quando il partito di plastica tornò al governo, fu nominato ministro della difesa. Era lì l’11 settembre 2001, il giorno in cui «il nuovo ordine mondiale», che fino a quel momento traballava giusto un po’, finì puramente e semplicemente in tocchi. Martino, scrive Porro, «era innamorato degli USA. Li conosceva, ci aveva vissuto e studiato. Sua moglie era americana. Il suo cuore era americano. Lui diceva di essere “una colonia americana”». Gli attentati di Londra e New York lo lasciarono attonito, non come, ma più di tutti noi. Ricordo che in tivù, la sera dell’apocalisse, fornì cifre catastrofiche, fortunatamente ridimensionate nelle ore successive, riguardo al numero dei morti a Ground Zero. Due anni dopo – lo leggo su Wikipedia – «sostenne la convinzione che l’Iraq avesse acquistato uranio dal Niger, affermazione inclusa nel documento pubblicato dal Numero 10 di Downing Street e intitolato Iraq’s Weapons of Mass Destruction: The assessment of the British Governmen (Le armi irachene di distruzione di massa: la valutazione del Governo britannico)».

È che il mondo, come negli ultimi due o tre secoli è capitato più volte, stava di nuovo cambiando, e di nuovo cambiando in peggio, nella direzione che il liberalismo aveva sempre avversato: scontri di potenze e di civiltà, dispotismo asiatico all’attacco, nostalgia in Occidente della «programmazione economica», dell’uomo forte, delle leggi «rigorose» e autoritarie. Martino denunciò l’illiberalismo delle leggi contro il fumo (e contro la pubblicità delle sigarette). Denunciò l’obbligo del casco per gli scooteristi e i motociclisti. Denunciò, in tempi recenti, anche l’imposizione del lockdown e delle mascherine. Sapeva anche lui, naturalmente, che «bisogna prendere con moderazione il termine “liberista”», ma il percome del suo pensiero non era negoziabile. Si è liberi, pensava, oppure schiavi.

Benedetto Croce? «Non aveva capito che senza libertà economiche la libertà politica non serve a niente. Che me ne frega se sono libero di decidere il destino del paese votando, quando non sono nemmeno libero d’andare al cinema senza mascherina?»

Diego Gabutti, Italia Oggi 7 dicembre 2022

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