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Da Asia Bibi a Silvia Romano, la distanza tra eroe e vittima

Due donne simbolo di questi anni: una è rimasta libera, l’altra no

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Esistono due mondi che non s’incontreranno mai. Neanche come imputati del tribunale del politicamente corretto, ma resteranno per sempre uno di fronte all’altro, alla corte dell’onestà intellettuale. Perché uno si porta tantissimo sui media, l’altro non avrà mai un ruolo da protagonista sul proscenio della cattiva coscienza occidentale. Da una parte c’è Asia Bibi, dall’altra Aisha Silvia Romano.

Chi è Asia Bibi

Quando Asia Bibi viene arrestata, è il 19 giugno 2009. È una giovane donna cristiana, madre di cinque figli, che mentre lavora va a prendere un po’ d’acqua in un secchio del suo villaggio in Pakistan. Le altre donne presenti le dicono che è “haram”, vietato dall’Islam. Ne nasce una discussione. E a quel punto le intimano una repentina conversione all’Islam. Già perché Asia è cattolica. Ma Asia si rifiuta, “credo in Gesù” – è la sua prima risposta. Le donne la circondano, esigono un giuramento ad Allah. Allora Asia replica, “Gesù Cristo è morto sulla croce per i peccati dell’umanità. Che cosa ha fatto il vostro profeta Maometto per salvare gli uomini?”. È questa domanda rivolta alle compagne di lavoro che costa ad Asia Bibi la condanna a morte. Viene accusata di blasfemia, resta in carcere per nove anni.

Verrà anche la magistratura a trovarla in carcere, le chiederanno ancora di convertirsi all’Islam. Quella scelta la libererà e le salverà la vita, le promettono. Ma Asia non crede, né cede a quella ipocrita libertà. “Io ho ringraziato di cuore per la proposta, ma ho risposto con tutta onestà che preferisco morire da cattolica che uscire dal carcere da musulmana. Sono stata condannata perché cristiana, credo in Dio e nel suo grande amore. Se mi avete condannata a morte perché amo Dio, sarò orgogliosa di sacrificare la mia vita per Lui”, sarà la risposta della cattolica Asia Bibi.

Passeranno gli anni e con essi le sentenze si susseguiranno senza sosta. Sarà sottoposta a tutti i gradi di giudizio. Nove anni lontana dai figli e dal marito nel braccio della morte pakistano. Per il popolo pakistano, per gran parte della politica e per gli Imam di tutto il mondo, ma soprattutto per i locali, Asia Bibi deve morire. Già troppa accondiscendenza nelle aule di tribunale, va impiccata!

La legge nera sulla blasfemia parla chiaro, c’è la pena capitale per chiunque sia reo di bestemmia contro il Profeta, il Corano e i suoi contenuti. Le proteste nel Paese si moltiplicano e raggiungono anche le piazze – animate da Imam locali – di Francia, Inghilterra, Germania. L’assoluzione e l’eventuale liberazione dal carcere di Asia vengono definiti come “il risultato di un accordo con l’Occidente”,  che sia anatema.

Corte Suprema del Pakistan

Ma quando ad ottobre del 2018 viene assolta dalla Corte Suprema, il Pakistan è in fiamme. Il palazzo della Corte Suprema a Islamabad viene circondato da 300 poliziotti. Le proteste mettono a ferro e fuoco il Paese, la Corte cede alle proteste del partito islamico sunnita, ‘Tehreek-e-Labbaik’, e non solo la giovane donna non viene subito liberata, ma su Asia pende anche il divieto di lasciare il Pakistan.

Questo “accordo” mette fine alle sommosse che hanno bloccato le principali città, costretto i cristiani a restare in casa e le forze di sicurezza a presidiare chiese e altri edifici religiosi. I dimostranti per giorni avevano sfilato bruciando fotografie di Asia Bibi, l’avevano disegnata con un cappio attorno alla testa e la scritta “impiccatela!”. Solo il 29 maggio 2019 la Corte Suprema del Pakistan respinge sia il ricorso contro l’assoluzione di Asia Bibi che il divieto di lasciare il Paese. Grazie ad un accordo internazionale, l’8 maggio 2019 l’avvocato della giovane donna le ottiene di farla ricongiungere con la sua famiglia – nel frattempo costretta a vivere nascosta – in Canada.

Prigionia

Quegli anni di prigionia significano una tensione tale da causarle disturbi cardiaci. Significano violenze e sevizie, maltrattamenti e umiliazioni. Racconterà di quando le fu messo un collare al collo talmente stretto da farle mancare il respiro: attaccato da una lunga catena alle manette della guardia che la tirava come fosse un cane. Racconterà cosa significa essere donna e cattolica in un paese islamico, “Siamo soprannominati choori, che sta per ‘colui che pulisce i bagni’. Quando facciamo i documenti di identità, siamo obbligati a dichiarare la nostra religione. Il nostro passaporto ha un colore particolare, è nero. Prima ancora di aprirlo, sanno che siamo cristiani”. Il che vuol dire una cosa sola: discriminazione.

Chi è Silvia-Aisha Romano

Mentre Asia vive ancora la sua lunga agonia, una ragazzina italiana partita per l’Africa a fare la cooperante viene rapita. Anche se la ricostruzione dei fatti più che di rapimento lascerà intendere che è stata tradita da chi si trovava con lei e la sua Onlus in Kenya. Dopo circa un anno e mezzo il governo italiano paga il riscatto ai terroristi islamici di Al Shabab e la ragazzina che era partita come Silvia Romano, ritorna Aisha. In arabo è la “madre dei credenti”, la più importante delle spose di Maometto. Aveva 6 anni quando venne perfezionato il contratto con il profeta di Allah che ne aveva circa 50. E’ così che Silvia vuole conservare la memoria di una delle spose maomettane e iniziare la sua nuova vita. Lo rende chiaro a tutto il mondo appena atterra a Ciampino.

Ci hanno ripetuto, in questi giorni, che la conversione e la fede sono fatti personali nei quali nessuno, men che meno lo Stato, può entrare. Verissimo, se non fosse che l’Islam non è mai un fatto puramente personale. Il velo, la cui “invenzione” è politica e non ve n’è traccia nel Corano, è il modo con cui l’islam ha deciso di coprire le sue donne. È una specie di elmo: simbolo di una guerra culturale che la religione di Maometto combatte contro l’Occidente e simbolo di una separazione.

La funzione è quella di protezione dall’esterno, e questo significa che ciò che le donne islamiche hanno intorno, a Ovest del mondo, è un pericolo. Qualcosa da cui ci si deve guardare, perché “impuro”. Come impure sono considerate le parti del corpo (capelli, collo, a volte mani e spalle) che la donna – dai nove anni – deve coprire per non disturbare o distrarre l’uomo che le considera concupiscibili. Come si può giudicare non offensivo e privato il velo?

Silvia avrà sicuramente subito pressioni e violenze anche psicologiche – nonostante, ad oggi, non abbia atto che negarle, aggiungendo di non essere “mai stata carcerata” e “sempre trattata bene” -, e probabilmente quel velo con cui è atterrata in Italia – che non è un abito somalo, ma solo islamista – era una tattica di sopravvivenza. Quella a cui Asia Bibi non ha voluto cedere, e di cui Silvia-Aisha si è comunque rifiutata di liberarsi una volta riconsegnata alla sua famiglia.

Conversione e domande irrisolte

Giustamente fa notare, però, Fausto Biloslavo, tutto ciò lascia immaginare che abbia trascorso “più una vacanza stile avventure nel mondo piuttosto che un sequestro”. Per un “ospite”, più che un ostaggio, inoltre, non si paga un consistente riscatto per vederla fuori dall’inferno jihadista somalo. E soprattutto ci si chiede se la ragazzina sia disposta a  condannare, più prima che poi, i rapitori del gruppo armato islamico Al Shabaab. Quelli che utilizzano la bandiera nera dello Stato islamico, anche se sono in gran parte affiliati ad Al Qaida. Giustamente la vaghezza delle sue deposizioni agli inquirenti, dopo due anni di silenzio, lasciano domande irrisolte: è reticenza?; un modo per non fornire dettagli che potrebbero portare ai sequestratori?; incapacità di intendere e di volere?

Ce lo racconterà la storia, per adesso la vicenda della nuova Aisha e della sua conversione ha lasciato un segno che non è scenografico, ma talmente reale che passerà ancora molto tempo prima che si smetta di parlarne. Qualcuno specula, come qualche Imam italiano e parla di islamofobia da Bel Paese. La verità è che l’islam nostrano festeggia, perché la conversione è definita “ritorno all’Islam”. Ma se Silvia si è convertita, perché cercare il suo riscatto? Come musulmana, Aisha non aveva bisogno di essere riscattata, era titolare di diritti sanciti dalla Shari’a, cosa è successo allora?

La verità è che non c’è niente di nuovo sotto il sole. È dall’ottavo secolo, da quando il dominio islamico ha iniziato la sua espansione nel mondo, che i cristiani vengono rapiti in cerca di riscatto. Un fenomeno talmente connaturato al momento storico che nell'”oscuro Medioevo” nascono due Ordini religioni – i trinitari e mercedari – che si dedicano esclusivamente al riscatto degli ostaggi dell’islam. Ma soprattutto che ogni tempo ha i suoi eroi e le sue vittime.

Show mediatico a confronto

Silvia è stata la protagonista di un pericoloso show mediatico, che ha funto da sponsor per i jihadisti somali e che ha regalato immagini per la loro propaganda. Silvia è il nuovo simbolo, tra gli applausi e gl’inchini, della più grande umiliazione per la libertà e dignità di una donna. Della violenza e della discriminazione che vengono celebrate. Aisha sarà pure stata incoronata dai media, dalla politica e dalle gerarchie cattoliche, ma è una vittima. Anche di chi oggi fa meme con le sue foto e di un governo che ha sbattuto la sua liberazione, con quell’infame veste islamica, in prima pagina.

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