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Donne, toghe e Fiat: la vita straordinaria di Romiti

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La Roma e la romanità dei Palazzi del potere perdono con Cesare Romiti un altro testimone e protagonista assoluto. Prima di lui a lasciarci Giulio Andreotti, resta solo Cesare Geronzi, per fortuna in gran salute. Nella Prima e nella Seconda Repubblica, Cesarone, così gli amici chiamavano Romiti, il Divo e l’Imperatore hanno racchiuso i tre poteri che contano, quello dell’industria, della politica e delle banche. Tutti con infanzie difficili e provenienti da famiglie modeste, inseguiti dalla magistratura che non ha permesso loro forse di realizzare qualche sogno che avrebbe reso l’Italia migliore: Mediobanca per Romiti, il Quirinale per Andreotti la permanenza in Generali per Geronzi, fatto fuori da quei poteri che era convinto di aver domato. Ma del trio, Romiti è il romano che a Torino ha lasciato la sua scia più luminosa, salvando la Fiat e gli Agnelli dal terrorismo e dalla disfatta economica.

Seppe affrontare con grinta e coraggio la miscela più esplosiva, quella che coniugava la rivolta sindacale con i venti gelidi del terrorismo che lambivano anche molti salotti insospettabili non solo in Piemonte ma anche a Milano e in Veneto. Romiti non si piegò mai, restando dritto come un fuso anche durante i funerali di Agnelli, al quale riuscì sempre a tener testa e forse l’Avvocato proprio per questo lo preferì al fratello Umberto, a Carlo De Benedetti, a Vittorio Ghidella e addirittura all’amatissimo Luca di Montezemolo. Nella vita straordinaria di Cesarone due aspetti sono stati fondamentali, soprattutto nella seconda parte: i rapporti con la magistratura e quelli con le donne, nonostante il grande rispetto per la moglie, signora Gina, con la quale usciva solo per qualche concerto al Lingotto. Dalla vulcanica rossa Michi Gioia che portava in elicottero a pranzo in Costa Azzurra, alla fascinosa Anna Coliva, direttrice del Museo Borghese. La stagione di Tangentopoli lo vide altrettanto protagonista.

Per salvare ancora una volta Gianni Agnelli dall’onta della Procura di Milano dopo gli arresti di uomini chiave del sistema Fiat non esitò a fare una confessione pubblica a Venezia a cui seguì una lettera d’appoggio del suo padrino di sempre, Enrico Cuccia. Ma se si salvò dalla Procura di Milano a cui con cinismo, attraverso l’avvocato Chiusano forse diede in pasto la Ferruzzi di Raul Gardini, nulla poté con la Procura di Torino che lo spinse ad un giudizio abbreviato per poi condannarlo nel 1997 per false comunicazioni sociali che gli preclusero la presidenza di Mediobanca destinata poi ad un triste declino quando al suo amico Vincenzo Maranghi subentrò come Ad il modesto Alberto Nagel. Quella battuta d’arresto lo portò, dopo una liquidazione monstre di oltre 100 milioni di euro, ad un mondo che l’aveva sempre affascinato, quello dell’editoria attraverso la presidenza della Rcs. E con essa giornali e giornalisti a cavallo tra il gossip, la cronaca giudiziaria e quella politica.

Da lì un sodalizio con direttori che ha amato e odiato come Ferruccio de Bortoli, Paolo Mieli e Stefano Folli ma soprattutto tante giornaliste pronte a sussurrargli l’ultima news, fake o vera che fosse. Un amore, quello per le giornaliste, che si perde con il tempo. Alcuni nomi: Chiara Beria di Argentine che lo introdurrà ai segreti della magistratura, Maria Luisa Agnese che fece direttore di Sette, il magazine del Corriere della Sera tra spettacolo e politica, e poi nel grande mondo della Rai con una giovanissima Lucia Annunziata direttore del Tg3, Federica Sciarelli che invitava a Torino per interviste esclusive e Barbara Carfagna, volto del TgUno, che lo iniziò al mondo del digitale facendogli scoprire Luciano Floridi, il filosofo della infosfera che poi Romiti invitò per una lectio magistralis all’Aspen presentandogli Mario Monti.

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