Economia

Il ritorno dello spettro della stagflazione

Davvero siamo vicini a uno scenario simile a quello degli anni ’70?

Economia

In queste ultime settimane si è tornati a parlare di stagflazione: un termine che unisce il fenomeno dell’inflazione (l’aumento generale e sostenuto dei prezzi) a quello della stagnazione. Un vero e proprio spauracchio per gli economisti perché la stagflazione è uno degli scenari peggiori in economia e ci fa ricordare quanto avvenne negli anni ’70 del secolo scorso.

Secondo alcuni analisti è il rischio che sta correndo l’economia globale e in particolare quella statunitense per i prossimi mesi, che secondo le previsioni dovrebbero, invece, essere caratterizzati da una crescita sostenuta, dopo lo stop causato dalla pandemia.

 

L’allarme, su un orizzonte temporale di lungo periodo, è stato lanciato qualche settimana fa anche dal “Financial Times” perché l’inflazione sta andando al di là di quanto atteso dalla ripresa economica. Le cause sono diverse: gli stimoli messi in campo dai governi e dalla banche centrali,  la crescita dei prezzi del gas, del petrolio, di alcune materie prime, i problemi delle supply chain (catene di approvvigionamento) globali e la carenza di manodopera (soprattutto negli Stati Uniti).

Sempre la prestigiosa testata britannica ha paragonato questo scenario economico a quanto avvenne nel secondo dopoguerra nel Regno Unito, quando insieme a un’alta inflazione ci fu carenza di manodopera, poiché occorreva ricollocare milioni di soldati nel mondo del lavoro dopo tanti anni di guerra.

 

Il precedente storico più celebre è però la stagflazione che caratterizzò buona parte degli anni ’70 e che ebbe ripercussioni molto forti nel nostro Paese, interrompendo gli effetti virtuosi innescati dal miracolo economico.

Ripercorriamo velocemente questo precedente storico, prima di analizzare la situazione attuale e capire se esistano rischi reali di un ritorno della stagflazione nei prossimi mesi.

 

Il precedente storico: la stagflazione degli anni ’70

Agli inizi degli anni ’70 del secolo scorso venne meno la stabilità finanziaria monetaria internazionale legata al sistema di Bretton Woods, nato all’indomani della seconda guerra mondiale per opera degli statunitensi. A causa dell’incremento della spesa pubblica di Washington generato dalle spese per la guerra del Vietnam, nel 1971 l’amministrazione Nixon dichiarò la fine della convertibilità del dollaro in oro. Assieme a questo shock si abbatté, nel 1973, quello petrolifero: le conseguenze furono gravi in tutto l’Occidente, ma in misura maggiore in Italia, dove il petrolio copriva oltre il 75% del fabbisogno energetico.

Il prezzo del petrolio aumentò vertiginosamente, fino a più del triplo rispetto alle tariffe precedenti, per decisione dell’OPEC – Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio: la diminuzione delle esportazioni e l’aumento del prezzo al barile furono due azioni politiche a sostegno della guerra del Kippur, in cui Siria ed Egitto attaccarono simultaneamente Israele.

La crisi energetica mise a nudo tutte le fragilità dell’economia italiana, già investita da una forte spinta inflazionistica (alla fine del 1971 si registrava un tasso di svalutazione complessivo pari al 50% rispetto al 1962), legata a un disavanzo pubblico sempre più incontrollato e dall’eccessivo indebitamento degli enti previdenziali e della finanza locale.

 

Lo storico Valerio Castronovo, nel saggio “Storia economica d’Italia” (Einaudi), scrive a pagina 393:

“Senonché l’Italia, già colpita da un tasso di inflazione selvaggio (inferiore solo a quello del Giappone), si trovò assai più esposta di altri paesi industriali, in quanto la sua economia si basava sulla trasformazione di materie prime provenienti dall’estero e non contava sulla produzione di tecnologie su larga scala.

Dal 1972 aveva finito così per vivere al di sopra dei propri mezzi grazie a crediti esteri ma con una serie di cambiali a scadenza ravvicinata: ciò che aveva comportato, tra l’altro, il pignoramento da parte della Germania (il banchiere e il partner più ricco della Comunità europea) di un quinto delle nostre riserve auree”.

 

La stagflazione degli anni ’70 segnò la fine dell’euforia del miracolo economico e mise a nudo tutte le fragilità strutturali dell’economia italiana.

 

Corriamo davvero il rischio di un ritorno della stagflazione?

La situazione attuale è per fortuna molto diversa da quanto accadde negli anni ’70 del secolo scorso e, in particolare, seppur stiamo assistendo all’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, manca fortunatamente il secondo fattore scatenante della stagflazione: la stagnazione, ossia una crescita molto debole.

La presidente della Bce – Banca centrale europea – Cristine Lagarde, nei giorni scorsi, ha provato a tranquillizzare i mercati, dichiarando che, se da una parte l’inflazione crescerà ancora da qui a fine anno per calare poi nel 2022, dall’altra possiamo escludere uno scenario di stagflazione, perché la crescita rimane sostenuta.

Anche il Fmi – Fondo monetario internazionale – non sembra essere preoccupato: ha stimato che quest’anno il Pil mondiale crescerà del 5,9%, nel 2022 del 4,2%, confermando il rimbalzo economico del post pandemia. Per quanto concerne l’inflazione, invece, il Fmi si aspetta un picco del 3,6% nei Paesi sviluppati, prima di scendere al 2% nella prima metà del 2022.

Infine Deutsche Bank ha analizzato le principali economie mondiali: nessuna di esse si avvicina al mix di un’inflazione al 3% e di una crescita inferiore all’1%.

Venendo al caso specifico dell’Italia, l’economia cresce a un ritmo sostenuto anche nel terzo trimestre dell’anno ed il Pil proiettato per il 2021 supera già la soglia del 6%, messo nero su bianco dal governo nella Nota di aggiornamento al Def.

Il rovescio della medaglia è che i prezzi al consumo continuano a correre, a causa dell’aumento a doppia cifra dell’energia: in Italia a ottobre sono saliti del 2,9% rispetto a un anno fa, mentre nell’Eurozona si registra un incremento del 4,1%.

 

Per ora, quindi, il rischio di un ritorno della temutissima stagflazione rimane improbabile ma occorre gestire il problema dell’inflazione qualora non dovesse ridursi nei prossimi mesi.

 

Alessandro Fuso