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Elogio del briatorismo oltre Briatore

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E invece qui si vuole proprio esagerare, si vuole difendere il “briatorismo”. Non solo l’uomo, sulla cui salute imbizzarrita (Covid e altro) stanno oscenamente banchettando i suoi nemici ideologici, piccoli Stalin in trentaduesimi. Ma proprio l’ideologia, quella che gli hanno appiccicato addosso (l’uomo è probabilmente a digiuno di storia delle ideologie, ma ha sicuramente avuto e realizzato parecchie idee nella vita, senz’altro più dei suddetti nemici), fino a caricaturizzarlo, ridurlo a proiezione delle proprie ossessioni pauperiste-chic, sproloquiare di “Briatoria” e “Nazione Billionaire”, come ha fatto nel giorno della malattia Repubblica.

Flavio Briatore, che non ha mai avuto tempo di leggere libri perché “quando sono in viaggio leggo i rapporti dell’azienda”, ne ha scritto uno. Si intitola Sulla ricchezza, e ha un sottotitolo ancora più azzeccato in era giallorossa: “Se l’Italia non vuole il benessere, è perfetta così”. Ecco, chi pensa che l’Italia sia perfetta così, col suo carico fiscale sulle imprese pari al 59% (dati della Banca Mondiale, non un tavolo di ciucchi al Billionaire), con la burocrazia più pervasiva e farraginosa dell’Eurozona, col suo reddito di cittadinanza (“una cazzata”, disse Flavio, e ancora una volta era di un rigore filologico certosino), con la sua inversione dell’onere della prova a danno del contribuente (e tanti saluti all’italianissimo Beccaria), con la sua rapina ai danni dei pochi territori produttivi per mantenere il suo Mezzogiorno in condizioni di mera sussistenza, vada nell’altra metà campo, peraltro affollatissima.

Noi stiamo con Briatore. Per noi l’Italia così è perduta, e forse nessuno negli ultimi anni ce lo ha detto meglio di lui. Con proclami fin troppo fracassoni, o all’opposto sintesi fin troppo approssimative, ma FlavioBriatore (un sintagma unico, ormai, per gli odiatori di professione, qualcosa tra l’UomoNero e Belzebù) ha innalzato un lungo, ininterrotto, benedetto controcanto alla regola italica. Quella atavica del tassa&spendi, la caccia alla ricchezza prodotta per livellare tutto il Paese nella povertà assistita, la redistribuzione socialistoide come meta e il moralismo cattocomunista come bussola, il denaro sterco del demonio o del capitalismo, che è la stessa cosa. Il contrario del briatorismo: “È il mercato che decide chi diventa ricco e chi diventa povero”. Grazie di esistere, Flavio. È il mercato, e il mercato non è da nessuna parte ed è in ogni luogo, è  ovunque qualcuno se lo inventi, compreso un ragazzo della provincia di Cuneo che finisce per vincere otto titoli mondiali di Formula Uno e creare dal nulla un marchio globale del lusso e dell’intrattenimento.

Non è il primo, Flavio, a dirlo? Grazie, noi che non abbiamo mai avuto occasione di leggere rapporti di bilancio come quelli di Briatore qualche libro lo abbiamo compulsato, tendiamo a pensare che Adam Smith o Friedrich von Hayek abbiano elaborato teorizzazioni sull’economia di mercato più esaustive. Ma il briatorismo è stato ed è essenziale proprio per questo, perché non è un’ideologia, come vogliono far credere i suoi detrattori risentiti (quelli che lo accusano persino di essersi accompagnato nel corso della vita a dame non respingenti alla vista, per capirci), è una pernacchia. Una pernacchia ai dogmi di questa Repubblica fondata sul permesso sindacale, al vittimismo furbetto e progressista, all’assistenzialismo come visione del mondo prima che come pratica politica, alla deresponsabilizzaizione collettiva, professionale, generazionale. “I ragazzi bravi vanno via dall’Italia e quelli meno bravi, che vogliono mangiare lo spaghetto la domenica con la mamma, non fanno crescere il Paese”.

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