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Esclusivo: viaggio tra i soldati che hanno sconfitto l’Isis - Terza parte

Così scomparirà una religione antichissima

Fuori dal complesso templare le famiglie che abitano nel villaggio si stanno riunendo per il pranzo. Una ragazza si avvicina e inizia a raccontarmi dei suoi studi all’università e del suo desiderio di andare in Europa. La diaspora ha portato molti yazidi in Germania, in Svezia, in Australia e negli Stati Uniti. Alcuni sono tornati ma non hanno ritrovato nulla. I giovani yazidi, come questa ragazza, difficilmente resteranno su queste montagne. Andranno a Duhok o a Erbil a studiare, non si sentiranno vincolati a sposarsi con altri yazidi, e piano piano la loro religione, mai codificata (hanno due testi sacri ma sono introvabili), scomparirà.

Una diaspora continua, che rende questo popolo sempre più fragile. La maggior parte degli Yazidi abitava nella regione di Sinjar, ai confini con la Siria. Sono scappati dalle violenze dell’Isis e hanno trovato rifugio qui in Kurdistan, regione che per prima li ha aiutati (sono stati proprio i peshmerga curdi a liberare Sinjar alla fine del 2015, grazie al supporto della coalizione guidata dagli Stati Uniti). Ci sono 300.000 sfollati, un problema etnico enorme, accolti nei campi profughi, dove oltre alla tragedia in sé ora si è aggiunto anche il Covid – a Erbil un giovane medico di Medicin sans frontière mi dice che l’epidemia nei campi profughi è diffusissima.

Quei soldati che hanno sconfitto l’Isis

Il Kurdistan è da sempre una terra d’accoglienza, qui hanno trovato rifugio gli yazidi e i curdi in fuga da Siria, Turchia e Iran – paesi in cui questa etnia è divisa per il solito destino che vuole i confini politici stabiliti ignorando le caratteristiche etniche.

Certo, hanno dovuto attendere un po’: questa terra a nord dell’Iraq esce da trent’anni di guerre. Si sono ribellati a Saddam Hussein, che contro i curdi si era accanito in modo disumano, hanno sconfitto, con l’aiuto di Stati Uniti e ONU, l’Isis. E per finire hanno avuto anche una guerra civile.  I segni lasciati da questi conflitti appaiono ovunque: i palazzi distrutti di Saddam Hussein, i segnali di avvertimento per le mine ai lati delle strade, i cartelloni con le fotografie dei peshmerga caduti, i mausolei a ricordo delle migliaia di vittime. Ma stranamente non si avverte, parlando con loro, il timore latente che tutto possa ricominciare. Sono pervasi di ottimismo, e della fierezza di essere riusciti a sconfiggere tutti i nemici, dell’orgoglio di aver lottato per il valore assoluto dell’indipendenza, che resta il loro sogno più grande (a favore del quale ha votato il 90% della popolazione del Kurdistan nel referendum del 2017). Ma il rappresentante del governo, un ex peshmerga del clan Barzani, mi dice scoraggiato che ancora non è venuto il momento, circondati come sono da Paesi forti come Turchia, Iran e Iraq.

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