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I due colossi del Made in Italy che non aspettano la manna dei soldi europei

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Carlo Rivetti è figlio d’arte. La sua famiglia, prima con i tessuti e poi con l’invenzione del prêt-à-porter, ha rappresentato la moda e il made in Italy. I Rivetti persero tutto (molto), ma Carlo si tenne il marchio Stone Island. E in pochi anni lo rese un caso nel mondo del cosiddetto sportswear: fattura 240 milioni con una redditività da far godere.

Remo Ruffini ha cinque anni in meno, non viene da Biella ma da Como, anche lui con tradizioni imprenditoriali. Rileva nel 2003 un marchio fallito che si chiama Moncler e in quindici anni lo porta da pochi milioni di fatturato a più di 1,5 miliardi. Macina utili come un ossesso, 600 milioni l’anno scorso, ed è diventato un leader mondiale. Quota la sua azienda e oggi vale in Borsa più di 11 miliardi.

Lunedì Moncler e Stone Island si sono uniti. Si tratta di un’acquisizione garbata (più di un miliardo) da parte di Ruffini. I Rivetti cedono il marchio, ma entreranno nella holding che controlla il nuovo gruppo. Stone, sarebbe una follia altrimenti, resterà autonoma. È una Moncler, per semplificare, di dieci anni fa: però con una ricerca sui materiali che in pochi al mondo hanno. Il tutto è più della somma delle parti, questa è la scommessa. I due imprenditori sono molto riservati, innamorati del loro lavoro. Rivetti accarezza i suoi tessuti come se fossero una bella donna, Ruffini per un bottone fuori posto potrebbe svenire.

In un’Italia demoralizzata che aspetta il Recovery fund come fosse un’assicurazione su un sinistro non voluto, R&R hanno dato una bella lezione. Hanno messo da parte le tipiche ambizioni e prudenza dell’imprenditore italiano. Non hanno pensato al loro orticello, ma hanno creduto che il campo si potesse allargare, cedendo ognuno un pezzo di proprietà. Hanno sempre ritenuto che quello che va bene all’azienda va bene anche a loro. E non che quello che va bene alla loro azienda, va bene all’Italia, come diceva l’Avvocato Agnelli.

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